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Scandalo Germania. La denuncia del New York Times: “Truffa le altre nazioni europee e gli alleati”

Pubblicato il 19/04/2023 17:47

L’Europa unita non è mai stata così disunita: ciascuno va in ordine sparso, non solidarizza con l’altro (vedi l’epocale fenomeno migratorio interamente demandato al nostro Paese) e non c’è mai stata una politica estera condivisa, eccezion fatta per l’invio di armi in Ucraina, al netto della retorica dei “Settant’anni di pace”. Non stupisce affatto, dunque, l’inchiesta del New York Times del 12 aprile, ripresa da Federico Rampini per il Corriere della sera. Rampini – che, come è noto, ha vissuto e lavorato a lungo in Cina e già parecchi anni fa studiava il fenomeno dei Brics – riporta come la Germania abbia fatto e continui a fare importanti investimenti produttivi in Cina, da cui a tutti gli effetti dipende in larga parte per la sua economia, peraltro inquinando parecchio, ma evitando le penalizzazioni imposte dalle normative europee; e, soprattutto, violando le sanzioni che la stessa Unione europea ha varato verso la Russia, poiché il gas di cui fruisce il Paese del Dragone è ancora importato dalla stessa Russia, e costa meno. È paradossale. Oltre l’inchiesta del New York Times, vi è anche un report proveniente proprio dalla Germania, stilato dal centro studi Kiel Institute. Il gruppo chimico Basf e la casa automobilistica Volkswagen, due colossi dell’economia teutonica, sono al centro dell’articolo del prestigioso quotidiano newyorkese: la Basf, vi si legge, ha già trenta stabilimenti chimici in Cina, e, inoltre, ha attualmente in costruzione un nuovo impianto, per un investimento di ben 10 miliardi di euro. (Continua a leggere dopo la foto)
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D’altronde, è stato lo stesso Ceo della Basf, Martin Brudemueller, a dichiarare: “Senza gli affari che facciamo in Cina non potremmo finanziare la nostra ristrutturazione in Europa. Non c’è un solo investimento europeo che sia redditizio in questo momento”. L’industria chimica in Europa è talmente penalizzata dalle normative ambientaliste e dai costi dell’energia che gli impianti in Cina sono oramai imprescindibili per la Basf. In Germania, poi, c’è una coalizione di governo con i Verdi che impone un graduale passaggio a un’economia de-carbonizzata. “Per finanziare la nostra transizione a un’economia de-carbonizzata, le emissioni carboniche andiamo a generarle in Cina”, sintetizza in maniera brutale ed efficace Rampini. Passiamo, ora, al caso Volkswagen. Il caso della Volkswagen non è affatto dissimile: ha oltre quaranta fabbriche in Cina. “Anche per Volkswagen gli alti costi di produzione in Europa, resi ancor più gravosi dagli obblighi di transizione veloce verso l’auto elettrica, rendono essenziali i profitti realizzati sul mercato cinese”, scrive Federico Rampini. (Continua a leggere dopo la foto)
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La dipendenza della Germania dalla Cina è al centro dell’analisi del Kiel Institute che s’interroga se sia realistico lo scenario di un “decoupling“, un divorzio, anche solo parziale. Ebbene, non converrebbe affatto. Le forniture cinesi, infatti, sono essenziali soprattutto nel settore della componentistica tecnologica. In totale il Kiel Institute elenca 221 prodotti la cui provenienza è essenzialmente Made in China.

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