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“La sua forza era l’amore per il prossimo”, l’Italia ricorda De Donno ad un anno dalla sua scomparsa

Pubblicato il 29/07/2022 17:49

E’ già passato un anno da quella calda giornata di luglio in cui agenzie, siti web, e a seguire i telegiornali e tutta la stampa, divulgarono una notizia che giunse come un fulmine a ciel sereno e che scosse l’intero Paese. Nel pomeriggio del 27 luglio Giuseppe De Donno, ex primario di pneumologia dell’ospedale Carlo Poma di Mantova, veniva trovato morto. Si stabilì che si trattava di un suicidio. Colui che per primo aveva iniziato a trattare il Covid con le trasfusioni di plasma iperimmune, ottenendo risultati molto positivi, aveva deciso di togliersi la vita. Ma l’Italia non lo ha dimenticato, come non ha dimenticato le vessazioni con cui il medico ha dovuto confrontarsi. «Salvo vite con il plasma iperimmune e da Roma mi mandano i carabinieri», disse nel maggio 2020, dopo aver ricevuto una visita dei NAS a seguito della sponsorizzazione della sua rivoluzionaria cura low cost per il Covid.
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Si trattava di una terapia controversa, come succede spesso alle terapie innovative, ma sulla quale sono arrivati anche ottimi riscontri anche a livello internazionale. L’immunoterapia è un metodo di cura basato sull’impiego di sostanze che agiscono sul sistema immunitario, per indurre, amplificare o sopprimere una risposta immunitaria da parte dell’organismo, potenziandone le difese naturali. De Donno prevedeva l’infusione, in pazienti affetti dal Covid-19, di sangue prelevato da persone contagiate dal coronavirus e guarite. Ovviamente il sangue prelevato veniva opportunamente trattato prima di essere trasfuso nei soggetti malati. L’ipotesi scientifica si basava sul fatto che nel sangue dei guariti ci fosse un tasso di anticorpi sufficientemente elevato, che avrebbe consentito a pazienti in condizioni analoghe di reagire più prima e meglio, ovviamente dopo aver preso le dovute precauzioni.
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Come riporta ilsussidiario.net, De Donno, clinico esperto di pneumologia e primario a Mantova, si era confrontato e aveva condiviso un protocollo sperimentale con un collega immunologo, ordinario all’Università di Pavia. Insieme a Massimo Franchini, primario appunto di immunoematologia, avevano iniziato a trattare i pazienti affetti da Covid-19 con la nuova terapia, definita come la cura del plasma iperimmune. Due anni fa, ben prima del vaccino, quando il ministro Roberto Speranza voleva curare l’Italia con “Tachipirina e vigile attesa”, questa pratica diventò in poco tempo l’arma più efficace contro il coronavirus, soprattutto se somministrata nelle fasi iniziali della malattia. E De Donno diventò il primario più conosciuto d’Italia, conteso da giornali e trasmissioni televisive.
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Al contrario dei soliti televirologi, durante le sue ospitate De Donno non si limitava a illustrare teorie scientifiche e a commentare i dati drammatici della diffusione del virus; lui poteva parlare dei risultati positivi che stava ottenendo. Questo scatenò la stima e la gratitudine di quasi tutto il Paese, ma anche una buona dose di gelosie e di invidie da parte di alcuni suoi “colleghi” e di taluni “ambiti” della televisione. E’ bene ribadire che si trattava comunque di un protocollo sperimentale che avrebbe avuto bisogno di una serie di conferme sotto il profilo scientifico, anche se i risultati clinici facevano ben sperare della sua efficacia. L’urgenza del momento imponeva di saltare alcuni passaggi metodologici, un po’ come accadde successivamente per il vaccino, sul quale, però, sono state date tranquillamente tutte le autorizzazioni condizionate del caso e su cui la propaganda ha costruito una narrazione totalmente distorta, dipingendolo come assolutamente sicuro e come l’unica salvezza.
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Dopo una promettente fase iniziale di euforia per gli indubbi risultati conseguiti, arrivarono le prime critiche. Non tutti i malati guarivano, molti continuavano a morire, nonostante gli indubbi risultati positivi, per cui cominciarono a raccogliersi testimonianze negative, che si spinsero in molti casi fino a un vero e proprio ostracismo. Molti colleghi pneumologi, infettivologi, immunologi, ecc. diedero il via a polemiche di ogni tipo. Si diffuse la notizia che il protocollo di ricerca, e la relativa sperimentazione clinica elaborata in collaborazione con l’Università di Pavia, non sembravano dare i risultati attesi. Le conclusioni della ricerca in definitiva non sembrarono confermare l’ipotesi iniziale di De Donno, nonostante fossero davvero molti i pazienti che guarirono dal Covid con quella terapia specifica.
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De Donno si trovò schiacciato sia dalle aspettative dei pazienti e delle loro famiglie, sia dalle critiche sempre più aggressive di colleghi e familiari di pazienti deceduti. Ad un certo punto venne mossa una vera e propria guerra mediatica contro il dottore, concretizzando il paradosso secondo cui ci si concentrava soltanto sui soggetti che non rispondevano alle cure, piuttosto che su quelli che ne traevano enormi benefici. Le ostilità andarono moltiplicandosi anche nel suo ospedale e la sua immagine venne assimilata a quella di un millantatore, che illudeva le persone per perseguire dei meri interessi economici. Ricordiamo tutti la personale crociata dell’opinionista Selvaggia Lucarelli, che su Twitter e sui giornali non lesinava odiose critiche contro il professore.
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Il linciaggio mediatico diventò presto inarrestabile, anche perché la pandemia nel suo insieme non accennava a ridursi; non era ancora partita la campagna vaccinale del generale Figliuolo, i medici ospedalieri non riuscivano a capire che pesci pigliare, il numero dei morti giornalieri era sottolineato dalle immagini televisive delle bare in attesa di sepoltura o addirittura dei lunghi camion militari in partenza da Bergamo. I telegiornali a tutte le ore del giorno davano il bollettino di nuovi ammalati, dei soggetti in terapia intensiva e dei morti: il ministro Speranza appariva spessissimo in televisione in compagnia degli studiosi più prestigiosi, per invitare alla prudenza, per ricordare le famose regole da rispettare e sollecitare a vivere rigorosamente il lockdown. Non c’era pietà per chi aveva fatto delle promesse concrete, senza che poi il miracolo avvenisse.
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Ai primi di giugno di un anno fa, stanco ed esasperato, deluso dagli stessi che stava cercando di salvare, De Donno dette le dimissioni dall’Ospedale di Mantova, abbandonando la carica di primario, per ricominciare a esercitare la sua professione, come medico di base a Porto Mantovano il 5 luglio. Il cambio di lavoro, da ospedaliero a medico del territorio, da specialista a medico di base, ebbe però un effetto opposto a quello voluto. Il web si scatenò nuovamente contro di lui, alludendo al fatto che, in realtà, il dottore fosse stato smascherato e declassato. Non perse occasione Selvaggia Lucarelli per rimarcare il fatto, con tono di scherno: «Vi ricordate il messia Giuseppe De Donno? Quel medico che salvava tutti con il plasma che chiamava “proiettile magico”, mentre Salvini e Le iene insinuavano che siccome era una cura GRATUITA chissà, cielanakondono? Beh, lasciato l’ospedale, ora è medico di base a Porto Mantovano», scriveva.
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Il 27 di luglio dello stesso anno Giuseppe De Donno si impicca. Pur non essendo del tutto chiare le circostanze del suicidio, è abbastanza semplice immaginare che la solitudine, la delusione e la frustrazione per aver cercato di fare del bene, mentre si ricevano solo vagonate di letame mediatico, abbiano preso il sopravvento. Anche di fronte alla morte del medico, Selvaggia Lucarelli non perse tempo nel twittare la sua dose di veleno quotidiana: «Il suicidio di un uomo è un evento tragico, ma non c’è stato nulla di eroico nello spacciare per miracolosa una cura che non funzionava, nell’offendere Burioni, nel gettare ombre sulle case farmaceutiche, nel soffiare sulle teorie del complotto e crearsi fake per darsi ragione», scriveva menzionando proprio Burioni, l’odiatore seriale che ha passato gli ultimi due anni ad offendere chiunque la pensasse diversamente da lui, in ogni ambito.
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Quella di Giuseppe De Donno è una storia triste, in cui l’uomo che ha saputo immaginare soluzioni nuove là dove altri vedevano solo ostacoli, viene schiacciato dalla sua stessa fragilità. Un medico che avrebbe avuto bisogno del sostegno e della solidarietà dei suoi colleghi ma che, invece, è stato lasciato solo da chi avrebbe dovuto aiutarlo di più nel momento più delicato della fase pandemica. Un uomo che oggi viene ricordato come un eroe, ma che si è trovato nelle condizioni di non vedere altre soluzioni possibili, se non quella della morte. Proprio lui, che si è sempre battuto per strappare alla morte i tanti malati di Covid.

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