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Il primario del Giovanni XXIII: “Bergamaschi gente tosta e coraggiosa: ce la faremo”

Pubblicato il 21/03/2020 15:22

II professor Fabiano Di Marco, nato in Svizzera, cresciuto a Milano, 46 anni, moglie, tre figli, docente universitario, è primario di pneumologia nell’ospedale Giovanni XXIII di Bergamo, diventato un avamposto di questa resistenza al coronavirus. Ormai è passato un mese, e Marco Imarisio lo ha intervistato per il Corriere della Sera: “Ai miei avevo detto che li avrei raggiunti in montagna. C’erano le feste di Carnevale. Era quel venerdì 21 febbraio. Fino alle 12, un giorno normale. Poi mi chiama da Milano il professor Stefano Centanni, il mio maestro: ‘Guarda che a Lodi è un disastro’. Così, inizio a parlare con i colleghi rianimatori. Sapevamo che le polmoniti da coronavirus sarebbero toccate a noi”. E dopo?

“Precipita tutto domenica primo marzo. Al mattino presto entro al Pronto soccorso. Non dimenticherò mai. La guerra. Nessuno di noi ha mangiato. Quel giorno è cambiato qualcosa anche nelle nostre vite”. Poi si è creato l’ingorgo. “C’era una parte del blocco centrale dell’ospedale mai aperta e adibita a magazzino. Non chieda a me come hanno fatto. Alle 13 c’erano ancora i pallet e i pannelli abbandonati. Alle 19.20 ho portato giù il primo paziente da intubare. I bergamaschi, gente tostissima e coraggiosa”. Quanti posti avete creato? “Martedì scorso i pazienti coronavirus hanno superato quelli con altre patologie. Sono oltre cinquecento, ormai”.

Per i caschi respiratori come avete fatto, chiede Imarisio. “All’inizio ne avevamo 20. Abbiamo cominciato a cercare. Niente, finito tutto. Sabato 7 marzo mi ricordo che 15 anni fa avevo conosciuto il titolare di una piccola azienda familiare di Levate, che faceva impianti ad ossigeno. Gli telefono: ‘Siamo disperati’. Risposta? ‘Ne ho dieci, li sistemo e ve li porto lunedì’. Lunedì è tardi, lo supplico. ‘Mi faccia chiamare i miei ragazzi, li monto e arriviamo subito, dice’. Vergognandomi, gli dico che me ne servono ancora. Lui: ‘Mi dia tre ore e gliene faccio altri nove’. E oggi? Ne abbiamo 139, siamo l’ospedale più fornito d’Europa. Grazie a lui. Dice che fa solo quel che gli hanno insegnato i suoi genitori. Gente così”.

C’è abbastanza personale? “Abbiamo fatto corsi di formazione. Tremila operatori. Un’ora per spiegare la malattia, un’altra sul casco di rianimazione. E poi in corsia”. La riconversione umana funziona? “Mi rendo conto che non è facile. Tu sei anatomopatologo oppure un chirurgo, e da un momento all’altro ti viene detto che devi gestire pazienti con una infettività altissima”.

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