Il supercommissario Arcuri, quello nominato per gestire al meglio la riapertura, aveva tirato per primo il freno, sottolineando come Immuni, l’app per affrontare la Fase 2, non sarà obbligatoria. Conte si è poi affrettato a gettare altra acqua sul fuoco, sottolineando in fretta e furia come tutto sarà gestito su base volontaria, senza restrizioni. E già qui bisognerebbe fermarsi e chiedere: Perché, c’era anche il rischio che fosse un diktat, come se non esistesse una Costituzione che garantisce la libertà ai cittadini italiani? Veramente avete ragionato sull’eventualità di imporre a tutti il download di un’applicazione, pena maggiori limitazioni nei movimenti? Meglio lasciar correre certi interrogativi, per non far nascere ulteriori, inquietanti riflessioni.
Restano i dubbi, tantissimi, sulla gestione di Immuni. Con un quesito-chiave al quale Conte & co. faticano ancora a dare una risposta chiara, rassicurante: Chi sarà a gestire tutta quella mole di dati personali e preziosissimi che ci riguardano molto da vicino? Riepiloghiamo quanto sappiamo fin qui. Il progetto del software, la cui licenza verrà concessa gratuitamente, sarà della milanese Bending Spoons, che verrà affiancata dalla società di marketing Jakala e dalla rete lombarda di poliambulatori del Centro Medico Santagostino. Zoomando ancora un po’, ecco che all’interno del capitale di Bending Spoons si leggono i nomi dei tre figli di Berlusconi e Veronica Lario (Luigi, Eleonora e Barbara), del banchiere e imprenditore Gianni Tamburi e del fondo Nuo Capital, che investe in Italia con capitali cinesi. Già, i cinesi.
Dalla gestione del passaggio alla rete 5G all’app che consentirà, secondo il governo, di evitare lo scoppio di nuovi focolai durante la Fase, l’ombra di Pechino continua ad allungarsi sullo Stivale, senza che i nostri rappresentanti si mostrino minimamente preoccupati per questo. Insistono, piuttosto, sulla necessità di fare tutto uno sforzo in nome dell’emergenza sanitaria da affrontare. L’app non sarà volontaria ma affinché sia efficace serve che almeno il 60% della popolazione. E allora via con gli inviti al download, un po’ per senso di responsabilità e un po’ perché “avete già mille applicazioni sul vostro telefonino, non fate polemica proprio ora sulla privacy”. Ma tutto questo ha senso?
Sì perché il problema di fondo resta: l’app nasce, in teoria, per informarci in caso di contatti con persone poi risultate positive al coronavirus, così da dare la possibilità al cittadino di isolarsi in attesa di sapere se a sua volta è stato contagiato o meno. Tutto bello, sulla carta. Ma difficile immaginarne l’efficacia in un Paese che continua a effettuare pochi tamponi. Ecco, perché invece di cercare di indorare la pillola, proponendo un’app “non obbligatoria ma caldamente consigliata”, il governo non mette in campo un piano di prevenzione che passi da controlli più frequenti? Gli italiani sono rimasti in casa, come le circostanze richiedevano, in questi giorni difficili. Ora però sarebbe il caso di non abusare del loro senso di responsabilità.
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