di Savino Balzano.
Gli annunci di “offerte di lavoro” sono pieni di proposte di stage e tirocini, spesso definiti come “retribuiti”.
In una sola frase ben tre menzogne da sfatare.
Primo: siamo noi l’offerta di lavoro. Il datore di lavoro rappresenta la “domanda di lavoro”, infatti paga un compenso per ottenere la nostra prestazione. Chi dovrebbe davvero offrire lavoro oggi è così disperato da arrivare a “domandarlo”: una stortura frutto di un mondo del lavoro ormai privo di diritti e tutele.
Secondo: lo stage e il tirocinio non costituiscono contratti di lavoro, nemmeno atipici, perché altro non sono che contratti di formazione. Lo stagista non è un lavoratore.
Terzo: non essendo un contratto di lavoro, non esiste lo stage retribuito. Nessun tirocinante è retribuito: solo il lavoro da diritto alla retribuzione.
La retribuzione risponde ai requisiti stabiliti dalla Costituzione, dalla legge e dai contratti collettivi. In particolare, la Costituzione stabilisce che essa debba essere sufficiente a garantire una vita libera e dignitosa alla persona (600 euro lordi e senza contributi rispondono a tale requisito? Fate voi).
Spesso queste offerte ammiccano con titoli tipo “offriamo stage retribuito”: quando vai a leggerci dentro, tuttavia, non si parla più di retribuzione bensì di indennità, pacchetto, rimborso o compensazione (sebbene qualche lestofante che utilizzi impropriamente l’espressione retribuzione e stipendio si trova sempre…). L’indennità è una sorta di risarcimento e serve a coprire eventuali spese per il trasporto e per i pasti, non è una retribuzione. Inoltre, la retribuzione è sia diretta (i soldi in busta paga), che differita (quella che accumuli per il TFR ad esempio): l’indennità no.
Non esistono gli stage retribuiti: essi non sono contratti di lavoro, ma di formazione, e dovrebbero servire per “insegnare” qualcosa allo stagista. Egli non dovrebbe essere lasciato solo, non dovrebbe svolgere attività complesse, non dovrebbe servire a sostituire personale assente (es. malattia o maternità).
Le aziende, soprattutto le grandi multinazionali, utilizzano gli stagisti per ottenere lavoro gratuito: né più, né meno. Poco diverso dal caporalato, anche se quando glielo fai notare saltano dalla sedia indignati.
A volte ci si mette anche la pubblica amministrazione e qui stendiamo un velo pietoso: c’è davvero da arrossire di vergogna.
In un mercato del lavoro così pesantemente piagato da disoccupazione e precarietà, lo stage finisce con l’assumere un ruolo centrale e lo sapeva benissimo chi vi ha investito normativamente: gli stagisti, comprensibilmente disperati, ti dicono che «è un modo per farsi conoscere…» (come se un contratto di lavoro non preveda un periodo di prova!); i datori di lavoro rispondono alle critiche con frasi tipo «noi molti di questi dopo li assumiamo…» (come se, per avere un posto, uno si debba necessariamente sottoporre prima all’umiliazione di lavorare gratuitamente).
Quella degli stage è una piaga: al netto delle poche e rarissime esperienze autentiche e positive, essi altro non sono che lavoro gratuito, sfruttamento, schiavitù. Senza contare che spesso le aziende non assumono al termine dello stage: si limitano a sostituire uno sfruttato con un altro, conviene.
I lavoratori si pagano e questi fenomeni, come quello del lavoro straordinario non retribuito, finiscono con l’incidere pesantemente sulle dinamiche occupazionali del Paese: vanno stroncati.