di Savino Balzano.
Abbiamo ormai imparato a prevedere le strategie perseguite dagli alfieri del liberismo più bieco e spietato e in materia di lavoro sono più o meno, banalmente malefiche, sempre le stesse.
Prima di ogni affondo, si mette in moto la macchina della propaganda: una macchina insistente, martellante, terribilmente invasiva, animata da cori di megafoni concordi nel narrare storie fantasiose, nel prospettare scenari inesistenti, nell’ingannare chi ancora ci casca.
Perché qualcuno che ci casca ancora purtroppo c’è: tra chi sostiene certe tesi c’è sicuramente l’alfiere malintenzionato, ma è purtroppo da registrarsi anche la presenza di chi, forse persino in buona fede, tuttavia completamente invasato e obnubilato dalla politicamente corretta presunzione di moderazione, non fa altro che aiutare il boia a stringere il cappio attorno al proprio stesso collo.
Chi si occupa di lavoro e di tutela dei diritti ad esso connessi certi inganni li conosce benissimo: con la promessa di accrescere l’occupazione, mediante la costituzione di un equo equilibrio tra flessibilità e sicurezza, si è precarizzato il mercato del lavoro facendo esplodere il fenomeno dei contratti atipici; con la promessa di attrarre capitali ingenti (soprattutto dall’estero) si è proceduto alla liberalizzazione del controllo a distanza, del demansionamento, all’abolizione della reintegra in caso di licenziamento illegittimo; con la favola di redistribuire diritti e ricchezza si è proceduto alla destrutturazione della contrattazione collettiva, all’erosione dei salari dei lavoratori italiani; fingendo di voler proteggere un’utenza vessata, si è proceduto – dividendo il Paese e innescando un’indegna guerre tra poveri – introducendo una delle più liberticide riforme in materia di sciopero che si potessero immaginare.
La politica nazionale ha dato tutta se stessa per tessere una narrazione mendace, suffragata e benedetta dalla peggiore Unione Europea, che molte di quelle riforme pretese e pretende, edificata com’è per supportare esclusivamente interessi altri, capitalistici e multinazionali, a scapito del mondo del lavoro e della sana imprenditoria votata alla domanda interna.
Lo smart working, soprattutto se generalizzato e inteso quale ordinaria modalità di lavoro, costituirà la nuova frontiera dello sfruttamento del lavoro ed è vero che rappresenta una grandissima opportunità, certo, ma non per i lavoratori.
La propaganda di regime è già in moto e ciancia di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, di città green, di abbattimento dell’inquinamento, di lavoratori intenti a prestare la propria opera col tablet in riva al mare sorseggiando un drink, di quelli a lavoro sul divano mentre il fuoco scoppietta nel camino, ma la verità è un’altra: ad avvantaggiarsene saranno solo coloro i quali hanno interesse a indebolire, impoverire e sfruttare le lavoratrici e i lavoratori italiani.
Raccontano che sia il lavoro del futuro, qualcosa di profondamente innovativo ed è una balla: il lavoro da remoto, il telelavoro, esiste in Italia da quasi vent’anni e se davvero l’interesse fosse quello di evitare ingorghi di traffico, inquinamento e conciliare i tempi di vita e di lavoro delle persone, si potrebbe far ricorso a quello.
La differenza tra il telelavoro è lo smart working è principalmente nelle tutele dei lavoratori e negli obblighi in capo al datore di lavoro: nel secondo il datore di lavoro nulla deve (o quasi) in materia di salute e sicurezza sul lavoro, flessibilizza enormemente la prestazione lavorativa dei dipendenti ancorandola agli obiettivi e avvicinandola pericolosissimamente al cottimo, supera completamente per questi il concetto di orario di lavoro e di lavoro straordinario, scarica totalmente sul lavoratore il compito di provvedere alla rete infrastrutturale da adoperare per la prestazione, non è tenuto a porre in essere le azioni necessarie a far sentire il lavoratore membro di una comunità in relazione ai suoi colleghi.
Qualcuno potrebbe obiettare che lo smart working non preveda una sede fissa per la prestazione lavorativa, a differenza del telelavoro, e che questo garantirebbe quindi maggiore libertà alla persona: anche questa è una balla perché nella stragrande maggioranza dei casi gli accordi collettivi e individuali necessari per ricorrere al lavoro agile prevedono l’indicazione di una sede fissa di lavoro da remoto.
A nulla vale la difesa per cui esso sia su base volontaria: il rapporto di lavoro è un rapporto di forza e la capacità contrattuale e negoziale tra le parti in campo è assolutamente squilibrata in favore del datore di lavoro.
Lo smart working serve ad abbattere importanti presidi di diritto, a spremere duramente i lavoratori che si troveranno a lavorare per obiettivi, costretti a molte ore di lavoro aggiuntive e senza retribuzione (con ricadute drammatiche sui calcoli del carico di lavoro pro capite e sulle politiche occupazionali nelle aziende e in generale nel Paese). Il lavoro agile presta il fianco al controllo a distanza, alla piena e totale fungibilità del lavoro con l’appiattimento della crescita nelle mansioni e della progressione professionale. Il diritto alla disconnessione, poi, solo enunciato e per nulla materiale e sostanziale, è attualmente carta straccia e lo sfruttamento sfonda letteralmente la porta della casa delle famiglie italiane violando la più profonda intimità domestica.
Esso è la vittoria del mercato, del capitale e della finanza sulla persona, sulla sua libertà, sulla sua dignità.
Ecco che il pensiero liberista mostra il suo vero volto: mentre si sforza sfrenatamente per arginare lo Stato, per ridurlo a solo garante del pieno arbitrio in capo al mercato e ai poteri finanziari, mentre celebra la sacralità e l’inviolabilità della sfera privata da parte dello Stato, consente poi alla speculazione e allo sfruttamento di penetrarla con la massima libertà e rivendica la rimozione di tutti gli ostacoli posti dinanzi a tale intenzione.
Lo smart working costituisce un’enorme possibilità di risparmio per il datore di lavoro (è così ovvio che non lo si argomenta neppure), il quale in quasi nessun caso è tuttavia disposto a socializzare con i lavoratori tali benefici. Anzi, approfitta della normativa per tagliare sui costi “accessori” (molte indennità non sono riconoscibili in lavoro agile), compreso il buono pasto.
Rappresenta per certi versi anche la resa dello Stato: possibile che per rendere green le nostre città si debba tappare in casa il mondo del lavoro? Abbiamo fatto davvero tutto quello che potevamo fare per impedirlo? Lo Stato ha ad esempio investito sufficienti risorse per efficientare il trasporto pubblico nelle nostre città? Ancora una volta, è necessario sottolineare come i drammi che si abbattono sulla classe lavoratrice siano anche figli dell’austerità, dei vincoli esterni, e a pagare è di nuovo il popolo nella sua interezza.
Bisogna smetterla una buona volta di ragionare di lavoro partendo dal punto di vista dell’individuo: il lavoro è un fenomeno sociale, collettivo e nella nostra Costituzione è intimamente connesso al fiorire della vocazione democratica dello Stato. Lo smart working incide, soprattutto se inteso come modalità ordinaria e generale di prestazione lavorativa, sulla comunità del lavoro rendendo definitivamente la vita lavorativa quale espressione di individualità, solitudine, isolamento e dunque subalternità.
Grazie al lavoro agile molti posti di lavoro sono stati salvati durante la pandemia. È vero, ma era un’emergenza e tale fenomeno non può esprimersi quale ordinario e generale: era una fase patologica, nel vero senso della parola, e non può essere trasposta in una declinazione fisiologica.
È fondamentale guardare alla comunità del lavoro e, soprattutto, assumere uno sguardo prospettico: sarebbe un errore gravissimo e dai risvolti drammatici quello di attenzionare solo chi, oggi in smart working, a fatica riesce a mantenere viva una rete di contatti con gli altri colleghi da casa; dobbiamo immaginare piuttosto chi entrerà nel mondo del lavoro del futuro, chi non conoscerà altro che questa modalità di lavoro, chi riterrà assolutamente normale vivere il lavoro in solitudine, non potendo condividere con altri le proprie difficoltà e le proprie pene, chi non potrà fare opera di proselitismo attorno a una causa vissuta come giusta, chi non riuscirà ad individuare una coscienza di resistenza, di rivendicazione, di lotta.
A chi conviene davvero tutto questo?