di Maria Elena Rovere, Primario di cardiologia
Stiamo pagando le conseguenze della politica sanitaria che ha attuato “l’aziendalizzazione” della sanità, pensando di poter gestire la salute con le strategie dell’industria, nella fattispecie la produttività. Sono stati chiusi ospedali, bloccate per anni le assunzioni del personale sanitario, ridotti i posti letto.
Poi è arrivato il covid, che ha messo in luce lo sfacelo generato da queste strategie scellerate, facendo pagare ai pazienti cardiopatici un prezzo decisamente alto.
Durante la prima ondata la paura di recarsi in ospedale e la sottostima dei sintomi, con conseguente ritardo nell’accesso alle cure, hanno causato un incremento della mortalità per infarto dal 3 all’11%, vanificando i benefici delle strategie di rivascolarizzazione precoce e di anni di campagne educazionali per la riduzione del “ritardo evitabile” nell’infarto miocardico.
La seconda ondata potrebbe avere conseguenze ancora più pesanti.
Per recuperare posti letto, i reparti di cardiologia vengono trasformati in reparti covid e le untità coronariche vengono trasformate in terapie intensive. I pazienti con cardiopatia anche grave perdono i punti di riferimento, il ritardo nelle diagnosi e nell’avvio delle terapie genererà un’ondata di pazienti che arriveranno alla nostra attenzione con patologie in fase avanzata, con minori probabilità di successo delle cure.
Non è il tempo delle polemiche, siamo medici e ci rimbocchiamo le maniche, ma è necessario imparare dagli errori, è necessaria un’inversione di rotta che, attraverso investimenti in risorse umane e tecnologiche e nella formazione, dia nuova dignità a quello che era il miglior sistema sanitario al mondo e garantisca fino in fondo il diritto costituzionale alla salute.