Una pugnalata, quella subita da Giusy Barraco, la campionessa paralimpica di nuoto alla quale è stata rubata la carrozzina. Raccontata dalla stessa atleta alle pagine del Corriere della Sera, con tutta l’amarezza e la rabbia del caso: “Mi hanno tolto le gambe. Per la seconda volta. La prima è stata la malattia a farlo. Ora invece la colpa è di quei delinquenti che mi sono entrati in casa e mi hanno rubato la carrozzina”. Una vita ricca, piena di impegni e avventure, la sua. Al centro della quale, quella sedia a ruote era diventata un simbolo: l’aveva accompagnata su palco, mentre raccontava a teatro la propria storia. Nel mondo della danza. Era stata con lei anche nel giorno più emozionante, quello del matrimonio.
“Per me e tutti coloro che hanno problemi a utilizzare le gambe è uno strumento prezioso – ha raccontato Giusy – Fa parte di noi, quasi un prolungamento del nostro corpo”. Portargliela via non ha significato soltanto farle un torto economico. Ma anche strapparle di colpo emozioni, ricordi: “Su quella carrozzina mi sono sposata, ci ho danzato, la ho usata in teatro. Avermela rubata è come aver compiuto un atto violento su una persona. E pensare che quando ero giovane la rifiutavo, avevo vergogna a usarla”.
Nata a Sicilia, a Petrosino in provincia di Trapani, dove ancora oggi vive, Giusy ha 41 anni e con la sua determinazione è diventata un simbolo, un punto di riferimento per tutti. Una donna talmente forte da riuscire a superare ogni ostacolo, ogni barriera. Anche se, ha spiegato, non è sempre stato così: “Quando ero giovane ci sono stati periodi in cui ho pensato che fosse meglio morire”. La sua vita è cambiata per sempre il giorno in cui le hanno diagnosticato la malattia di Charcot-Marie-Tooth, più semplicemente Cmt, una neuropatia genetica ereditaria che colpisce circa una persona ogni 2500 e interessa i nervi del controllo del movimento e sensoriali.
“Avevo 4 anni e mi sono svegliata con febbre alta e vomito. I problemi iniziarono lì. Andai avanti così sino a 11 anni. Cadevo, non riuscivo a tenere in mano gli oggetti. Ma non capivano cosa avessi. All’età in cui le mie amiche avevano il ragazzino, io mi nascondevo in casa. Quando avevo 15 anni ho viaggiato fino a Lourdes. Mica ci volevo andare, ero arrabbiata con Dio. Eppure, lì ho cambiato il mio atteggiamento. Mi dissi: ho due scelte, o prendo la mia vita in mano o mi lascio morire”. A quel punto l’ingresso del Centro Nemo Sud di Messina, dove ha trovato “una famiglia”. E la decisione di raccontarsi, a teatro e in un libro. È diventata campionessa di nuoto. E soprattutto ha trovato l’amore: “Giuseppe è il mio angelo, ci siamo sposati due anni fa. Spesso si pensa che una donna con disabilità non abbia sogni e desideri come tutte. Che bello sarebbe poter avere un figlio”.
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