La corsa all’oro è ripartita, o forse non si è semplicemente mai fermata. Fatto sta che resta il bene-rifugio per eccellenza, come evidenziato dalla tendenze delle banche dei Paesi emergenti con gli acquisti consistenti dei soliti noti, Russia, India, Cina e Turchia, oggi affiancati da quelli di Iran, Qatar, Uae ed Ecuador. In totale, nel corso del 2019 si sono verificate 650 tonnellate di acquisti del prezioso metallo, con un notevole incremento da parte dei Paesi petroliferi.
Proprio questi ultimi, infatti, sono costantemente alla ricerca di una diversificazione dei propri asset di riserva. I dati del 2019 appena concluso sono il risultato più alto fatto registrare negli ultimi cinquant’anni, con un boom superiore registrato soltanto nel 2018 (la differenza è però davvero minima). Una tendenza che, secondo molte delle analisi effettuate in queste settimane dagli esperti, potrebbe anche non essersi ancora esaurita.
Crescono contemporaneamente le quotazioni, che si erano mantenute nei giorni scorsi sul livello di 1563 dollari l’oncia con un progresso del 20% rispetto ai valori di dodici mesi prima. L’incremento ha garantito profitti notevoli per gli istituti centrali che già possiedono oro in quantità importante, come ad esempio la Banca d’Italia con le sue 2452 tonnellate che la pongono al quarto posto come detentrice, subito dopo la Federal Reserve, la Bundesbank e il Fondo Monetario Internazionale.
Al 31 dicembre 2018 il controvalore del quantitativo di oro di proprietà dei Bankitalia era pari a circa 88 miliardi. Un anno dopo era salito al 20% senza che la Banca avesse effettuato durante il 2019 alcun acquisto. Oggi le quotazioni sono tornate quasi ai massimi storici dell’estate 2011, con 1837.68 dollari l’oncia. Un picco dopo il quale si era registrata una caduta durata fino al dicembre 2015.
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