Sui dati pubblicati dall’Istituto superiore di sanità c’è sempre molto da dire. Quel che è ormai certo è che i report dell’Iss vanno letti nel dettaglio prima di fare proclami contro i non vaccinati e, soprattutto, prima di emanare restrizioni a tappeto. Ad esempio andrebbero letti soprattutto a seconda delle classi di età, perché in questo modo ci si accorge che i numeri e le percentuali cambiano, e pure di parecchio. Francesco Borgonovo a tal riguardo ha pubblicato su La Verità un’intervista ad Antonello Maruotti, professore ordinario di statistica alla Lumsa e cofondatore di StatGroup 19, un gruppo interaccademico di studi statistici sul Covid. Ci si è accorti, infatti, che nei report dell’Iss alcuni dati mancano, altri appaiono un po’ grossolani, altri sembrano addirittura forzati. Può la politica non tenere conto di questo? (Continua a leggere dopo la foto)
Spiega Maruotti, ad esempio, i dati sulla mortalità da Covid. Secondo l’Iss, chi non si è vaccinato rischia di morire 33,1 volte di più rispetto a un vaccinato con terza dose. Eppure, se andiamo a guardare i dati della mortalità divisi per fasce di età, a questo 33,1 proprio non si riesce a replicare. Come è possibile? “Purtroppo la comunicazione dei dati non è sempre lineare. Come in questo caso, i dati vengono riportati senza una spiegazione, ma solo con un rimando alla nota metodologica con piccole note inserite sotto le tabelle. Non è in dubbio la correttezza statistica, ma sul piano comunicativo è l’ennesima dimostrazione di come, troppo spesso, siamo costretti a fidarci. Invece, come ribadito anche dal British medicaljournal, c’è necessità di maggiore trasparenza. Il rischio di morte diviso per classi di età facendo il confronto tra vaccinati e non vaccinati? Partiamo dalla fascia 5-11 anni. In quella fascia non si può calcolare: i dati sono disponibili solo dai 12 anni in su. Purtroppo, con i dati pubblicati nel bollettino, non c’è modo di fare alcun commento o analisi sull’impatto del vaccino, in termini di contagi o altro, nella popolazione under 12. A un mese dall’inizio della campagna vaccinale per gli under 12, dati di questo tipo potrebbero dare informazioni importanti, anche per la gestione dell’epidemia nelle scuole”. Andiamo bene… (Continua a leggere dopo la foto)
Vediamo allora le altre classi d’età. Analizza Maruotti: “Notiamo molta eterogeneità nei rischi. Per i non vaccinati, rispetto a chi ha avuto la terza dose, i rischi di morte sono di circa 7 volte maggiori nella classe di età 40-59; di 21 volte tra i 60 e i 79 anni e di oltre 62 volte per gli 8o+. Quando diciamo che un non vaccinato fra i 4o e i 59 anni rischia 7 volte di più la morte rispetto a un vaccinato ci riferiamo a questo ordine di grandezza: ogni 100.000 persone non vaccinate, ne muoiono 415 tra gli over 8o; 64 tra 60 e 79 anni; 6 tra 40 e 59 anni; 0,38 sotto i 40 anni, pari allo 0,00038%. Ogni 100.000 persone con il booster, per le stesse classi di età abbiamo 7,3, 0,73 e 0 morti”. (Continua a leggere dopo la foto)
E le possibilità di finire in terapia intensiva? Spiega Maruotti: “Su 100.000 non vaccinati ne finiscono in terapia intensiva 45 tra gli over 80; 81 tra 60 e 79 anni; 20 tra 40 e 59; 2 tra12 e 39 anni. Tra chi ha fatto il booster nelle stesse fasce d’età, i ricoverati sono: 1,42; 1.64; 0,63; 0,15. Si nota che il vaccino protegge dalle forme gravi”. Ma anche in questo caso, al di sotto dei 59 anni, i numeri cambiano vistosamente. È per questo che è importante analizzare i dati per fasce di età, per poter iniziare a ragionare su una differenziazione negli obblighi vaccinali, ad esempio, o per valutare altre forme di contenimento dei rischi pandemici. Altro dato importante: “I numeri mostrano un rischio di ospedalizzazione superiore per chi ha la terza dose in alcune fasce di età”. (Continua a leggere dopo la foto)
Sembra dunque di capire che differenze davvero notevoli fra vaccinati e non vaccinati si comincino a vedere soltanto dopo i 60 anni di età. Argomenta Maruotti: “Nelle età più fragili, i rischi sono notevolmente maggiori che nelle età più giovani. Ci sono poi – come si diceva – informazioni mancanti per poter arrivare a conclusioni più solide, come ad esempio il numero di comorbidità presenti (altre patologie presenti: ipertensione eccetera). Più i dati sono aggregati, meno è semplice trovare spiegazioni. La trasparenza e la condivisione dei dati sono fondamentali”. Infine, altra nota significativa: “I periodi di osservazione per contagi, ricoveri e decessi, sono diversi. I rischi di contagio si riferiscono all’ultimo mese, fino al 16 gennaio; le ospedalizzazioni, invece, fanno riferimento al periodo 3 dicembre-2 gennaio; i decessi, infine, si riferiscono al periodo 26 novembre-26 dicembre, quindi quando ancora Omicron non era prevalente, secondo le stime ufficiali”. Per questo, dunque, i numeri italiani sono in controtendenza con Regno Unito e Spagna dove parlano di uscita della pandemia e noi di restrizioni. È solo questione di rilevazione e analisi dei dati. Ma alla politica, forse, fa comodo così.
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