Provate a pensare cosa succederebbe se il crash che ha interessato il cloud di Microsoft fosse il crash dei nostri telefonini: andremmo nel panico. L’altro giorno abbiamo visto una moltitudine di persone bloccata, tra aeroporti ospedali e uffici vari; e un’altra metà in ansia per capire cosa stesse succedendo ai dati immagazzinati nei cloud.
Qualcuno ha scritto che <sembravamo essere piombati nel Medioevo”, riducendo ancora una volta un periodo straordinario da molti punti di vista a qualcosa di primitivo, dimenticando che proprio in quella (lunga) stagione di mezzo della Storia il sapere si strutturò in Università e che grandi invenzioni – dagli occhiali ai martelli idraulici passando per gli orologi nelle torri – vedevano la luce. Senza dimenticare le banche indispensabili per un commercio sempre più intenso; o la pittura cromatica di grandi artisti come Giotto e Cimabue (altro che secoli bui..). Insomma le evoluzioni e le scoperte importanti non sono mancate nel Medioevo.
Quello che è accaduto l’altro giorno non ha niente a che vedere con il Medioevo ma attiene – paradossalmente – a un meccanismo distorto che riproduce una schiavitù digitale, un asservimento ad una specie di divinità digitale padronale. Tutto converge in piattaforme mastodontiche che lavorano in regime di oligopolio. Le quali quando subiscono un attacco o un errore umano ballano e fanno ballare.
Pensiamo a quanta vita abbiamo riversato nei cellulari: da ciò che un tempo conservavamo nella nostra memoria (non ricordiamo più un numero di telefono) a dati più delicati come quelli bancari o sanitari, per citarne solo due dal mazzo. Abbiamo smaterializzato le nostre esistenze, anzi abbiamo smaterializzato noi stessi accettando la comodità offerta da un solo oggetto che diventa chiave di casa come della macchina, carta di credito e qualsiasi altro dato che un tempo avremmo conservato in raccoglitori classificati con etichette adesive “esami del sangue”, “banca”, bollette” e via dicendo. Certo, è tutto più comodo e ci evita la scocciatura di usare la memoria come processore naturale e misterioso.
Siamo già entrati nel tempo in cui l’intelligenza artificiale scriverà, disegnerà, comporrà al posto nostro; metterà in ordine, col supporto di algoritmi più o meno evoluti e aggiornati, il nostro cosiddetto disordine. Ci affideremo totalmente alle macchine come finora ci siamo affidati ad una app per andare in giro (google map al posto del Tuttocittà) o per chiamare un familiare o un amico: chi si ricorda più un numero di telefono? Chiediamo ai sensori di Alexa e affini di consigliarci un film o una canzone, un ristorante o un sito di e-commerce dove comprare senza la scocciatura di entrare in un negozio.
Nel nostro telefonino abbiamo infilato la nostra identità, i nostri credits bancari, le nostre impronte digitali, l’iride e la faccia, inconsapevoli di minacce esterne, di intrusioni esterne come se la “modernità digitale” non preveda pirati informatici, truffe e ricatti. Ogni secondo della nostra esistenza non ha nulla di segreto. Ma chi sono i pochi padroni? E, soprattutto, chi siamo noi in quest’era sotto controllo?