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“Quando lo schiavo sei tu”. L’inferno dei 4 milioni di lavoratori italiani umiliati dai nuovi padroni

Pubblicato il 29/06/2020 12:12 - Aggiornato il 29/06/2020 15:08

Esiste la schiavitù in Italia? La risposta è sì. 3 milioni e 700mila è il numero di schiavi presenti in Italia. La chiave di lettura che viene proposta all’interno di un articolo pubblicato sulla Repubblica è tanto tragica quanto emergenziale e interessa una forza di lavoratori sfruttati che vale il “4,5 per cento del nostro Pil (79 miliardi di euro)”.

Un numero che viene individuato dal quotidiano la Repubblica e viene schiaffato in faccia al mondo politico, incapace di prendere il nostro Paese e di portarlo fuori dalle macerie del crollo. Si tratta per lo più di “ragazze e ragazzi tra i 25 e i 35 anni, che lavorano senza tutele, fuori dalle norme, o, tutt’al più al riparo di contratti che chiamare tali è un eufemismo”.

Sono quelli che, oggi, si “contendono le briciole dell’economia dei lavoretti”, perchè in condizione di vulnerabilità o in una situazione di necessità. Vittime di un meccanismo che intrappola e costringe alla riduzione in schiavitù. La parola “futuro” per loro è sconosciuta, proprio come per Andrea, la cui storia, che riprendiamo dall’articolo della Repubblica, ben rappresenta le difficoltà e le emozioni di questo esercito tutt’altro che tutelato.

Andrea è un giovane 25enne diplomato, che dopo una lunga serie di lavori a nero, si sente graziato dalla possibilità di iniziare il lavoro come rider.

Il primo giorno come ‘fattorino’ è per lui un giorno speciale perchè rappresenta il suo primo giorno di lavoro ‘vero’, in quanto finalmente vi è un contratto di lavoro. Seppur di quelli piccoli piccoli, ma comunque un contratto che fa “provare l’ebbrezza di ricevere una certificazione unica” per il Fisco e di essere riconosciuto come lavoratore ufficialmente da qualche parte.

Lui non si lascia spaventare dall’avvertenza “Sarà dura”, perchè questo è sempre meglio di ‘qualcosa che non risulta da nessuna parte’. Questo è qualcosa di vero, “Qualcosa che si tocca, che non ti fa tornare soltanto stanco a casa. Qualcosa che ti fa dire: ‘Io lavoro per’ e non ti fa vergognare tutte le volte che ti chiedono: “Ma tu che lavoro fai?”.

Un sogno che in realtà si trasforma in un incubo, perchè la categoria dei rider, che già ha dovuto lottare molto solo per essere riconosciuta come categoria lavorativa, viene calpestata nei diritti fondamentali.

I rider sono ‘i fattorini moderni’, persone che guadagnano “pochi euro a consegna” e per le quali non ci sono differenze tra festivi, weekend e orari notturni. Sono lavoratori autonomi, sebbene non siano loro a concordare la paga né a decidere le modalità con cui devono svolgere l’attività, che vengono valutati sulla base di un algoritmo. Se nella valutazione totalizzano un punteggio alto, il sistema concede loro una maggiore priorità nello scegliere i turni. Altrimenti ‘ti arrangi’.

Insomma, queste sono tutte storie di ‘lavoratori’ messi con le spalle contro il muro che ogni giorno devono decidere tra ‘lavorare a queste condizioni’ o ‘non lavorare affatto’.