di Gianluigi Paragone.
Fa discutere la svolta garantista impressa da Luigi Di Maio al Movimento Cinquestelle. E lo fa per tanti motivi.
Lo fa perché è l’ennesima giravolta compiuta dai grillini: mai visto – lo confesso – un partito interpretare così squallidamente tante parti in commedia. Dal “mai con quelli di Bibbiano” alle scuse a favore del sindaco di Lodi, il piddino Uggetti, per lo sciacallaggio giustizialista; dalla raccolta delle firme per uscire dall’euro ad essere le belle damigelle di Bruxelles; dalla revoca delle concessioni autostradali ai Benetton a una trattativa della quale non si vedono sbocchi; dal mai alleanze coi partiti ad essere alleati con tutti. Soprattutto nel governo di Mario Draghi, il nemico di quando salivano sui tetti. E potremmo andare oltre, citando i mandati zero, le guerre alle auto blu eccetera… Non ci sarebbe insomma di che stupirsi dell’ennesima giravolta. Eppure se ne discute. (Continua dopo la foto)
Più interessante invece commentare l’uscita del “cardinal” Di Maio buttando l’occhio sulla divisione delle truppe parlamentari: quelli della Camera sono di fede dimaiana, quelli del Senato non lo possono vedere e sperano che Giuseppe Conte si spicci a diventare il capo di quel che resta sotto le stelle.
Con la lettera al Foglio, Luigi da Pomigliano ha marcato la propria leadership senza dover mostrare i gradi; lo ha fatto guardando al dopo a prescindere dal Movimento, il cui corpaccione non interessa più al ministro degli Esteri (nel senso che non suderà più del dovuto per modificarne i connotati). Scrivere e spedire una lettera al giornale fondato da Giuliano Ferrara in materia di giustizia significa mettersi dall’altra parte del campo, quella opposta presidiata dal Fatto Quotidiano, dove ben militano culturalmente il più oltranzista Alessandro Di Battista (magari strizzando l’occhio a Davide Casaleggio, come leggo da qualche parte, in un contenitore nuovo) e dal più moderato Giuseppe Conte il cui decisionismo è sempre “salvo intese”. (Continua dopo la foto)
La partita insomma è solo di posizionamento, la sostanza è acqua fresca: Di Maio può porgere tutte le scuse del mondo, tanto resta innegabile che il grillismo si è fatto strada prendendo a spallate le vite degli avversari per il solo fatto di essere sfiorati da un sospetto. Grillo e il Movimento hanno interpretato l’asprezza assoluta, il manicheismo più talebano, come tattica per cacciare i mercanti dal tempio e – dobbiamo ammettere col senno del poi – prenderne il posto.
Ecco perché aver cancellato un altro pezzo del repertorio cambia poco. Chi segue la tribù – o per lo meno quel che resta della tribù – manderà giù qualsiasi altro boccone, pur di restare a galla. Ottenere il terzo e pure il quarto mandato è davvero l’unica cosa che conta ai grillini in parlamento: dategli la possibilità di restare a Roma ancora un giro e potranno persino iscriversi al club Bilderberg.