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“Non è discriminazione.” La Corte Ue rigetta il ricorso. Duro colpo per l’Islam in Europa

Pubblicato il 28/11/2023 17:24

Il sacrificio di Giulia Cecchettin ha riaperto il complesso dibattito sul cosiddetto patriarcato. Ma non è, o meglio non dovrebbe essere, il solo “maschio, bianco ed etero” – una categoria oramai stigmatizzata – a essere messo all’indice e, anche se vi è chi volta lo sguardo altrove, nella ampie comunità islamiche che risiedono in Italia e in Europa si ravvisano, nitidi e inequivocabili, i germi e il retaggio di una cultura che le donne le opprime, le soffoca, le costringe a una vita di chiusura perfettamente racchiusa nell’obbligo di portare il velo, anche già da bambine, o a subire l’imposizione di matrimoni combinati (si pensi alla povera Saman Abbas), a essere quantomeno percosse in caso di adulterio, secondo la Sharìa . Ecco perché una semplice sentenza può illuminare una via che possa riscattare le donne islamiche, che l’Islam lo subiscono, più che altro. Sicché è possibile vietare il velo negli uffici pubblici in Unione europea: “Una pubblica amministrazione può vietare all’insieme dei suoi dipendenti di indossare segni religiosi sul luogo di lavoro”. (Continua a leggere dopo la foto)
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“Niente velo islamico”

Lo ha sancito la Corte di giustizia europea, con sede in Lussemburgo, esprimendosi sul caso di una cittadina contro il Comune di Ans in Belgio, in cui è impiegata, a cui era stato vietato di vestire l’hijab, il velo islamico, sul posto di lavoro per osservare il “principio di neutralità”. Della causa si è occupato dapprima il Tribunale del lavoro di Liegi, ponendosi il quesito se la regola di rigorosa neutralità stabilita dal Comune desse luogo a una discriminazione contraria al diritto dell’Unione. A quel punto è stata investita della controversia la Corte del Lussemburgo, la quale ha stabilito nella sua sentenza che nel caso in cui si tratti di una politica improntata alla “rigorosa neutralità”, come riporta il Giornale, non è illegale il divieto. Per i giudici non si tratta di una regola discriminatoria se viene applicata in maniera generale e indiscriminata, dunque. In questo contesto, ogni Stato membro e ogni ente statale, all’interno delle proprie competenze, ha infatti un margine di discrezionalità “nella concezione della neutralità del servizio pubblico che intende promuovere sul luogo di lavoro, a seconda del proprio contesto”. L’elemento chiave, tuttavia, è che tale finalità di neutralità debba essere perseguita in modo coerente e sistematico, e che le misure adottate per conseguirla debbano essere limitate allo stretto necessario. (Continua a leggere dopo la foto)
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E il Crocifisso?

Dunque, la Corte europea non dice che “i dipendenti pubblici non debbano indossare simboli religiosi” ma stabilisce che una pubblica amministrazione ha facoltà di imporlo ai propri dipendenti. Una nota a margine: tale impianto della sentenza, in teoria, potrebbe interessare anche il crocifisso o i simboli cristiani, come si teme. Sarebbe, però, una deriva ingiustificata – a nostro avviso – perché, culturalmente parlando, l’Europa non può non dirsi cristiana. Inoltre, portare il crocifisso al collo non copre il volto e non svilisce l’identità di chi lo indossi, laddove il velo, l’hijab e, all’estremo, il burqa sono simboli imposti alle donne da un precetto coranico palesemente discriminatorio, quello sì, tra i due sessi.

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