Soldi che vuoi, condizionalità che trovi. L’Europa è questa, niente di più, nonostante il costante martellamento del governo impegnato giorno e notte a convincere gli italiani del fatto che Bruxelles abbia un altro volto, molto più umano, finalmente in mostra. Col passare dei giorni, dopo gli annunci trionfali del premier Giuseppe Conte, il Recovery Fund si sta mostrando per quello che è, un percorso cosparso di potenziali trappole come tutti quelli tracciati dall’Ue. Per presentare la domanda e avere accesso al maxi-fondo da 750 miliardi l’Italia, alla quale spetterebbe in teoria una bella fetta della torta (172 miliardi, di cui 82 sotto forma di sussidi e 90 come prestiti), dovrà infatti presentare un piano che prevederà anche passaggi come il taglio della spesa pubblica e modifiche alle pensioni. Alla faccia, ancora una volta, della solidarietà disinteressata.
Bene, tra l’altro, che un simile piano in cui l’Italia prende una serie di impegni tra i quali anche una riduzione del debito venga presentato il prima possibile. Perché i tempi sono lunghi, lunghissimi, con la certezza ormai quasi assoluta di non vedere un euro per tutto il 2020. Dagli 82 miliardi sotto forma di sussidi, inoltre, andranno sottratti i 55 di versamenti dal nostro Paese al Fondo per la ripresa, con un rimborso che sarà poi molto diluito nel tempo fino al 2058. L’affare, insomma, non è per niente come ce lo avevano presentato Conte e gli esponenti giallorossi in questi giorni di esultanze sfrenate e applausi autocelebrativi. E le cose, parafrasando Igor del leggendario Frankestein Junior, potrebbero andare ancora peggio. Potrebbe piovere.
Fuor di metafora cinematografica, l’accordo che già imporrebbe all’Italia condizioni da accettare e tempi lunghissimi potrebbe alla fine non essere nemmeno quello annunciato in questi giorni dalla von der Leyen e subito incensato dai vari leader europei. Perché la proposta dovrà essere ora approvata in sede di Consiglio Europeo e i negoziati in merito si sono subito fatti ferratissimi. Danimarca, Svezia, Olanda e Austria hanno espresso la loro contrarietà al principio dei trasferimenti diretti ai Paesi membri, l’Ungheria ha puntato il dito contro un piano che a suo dire la penalizzerebbe non poco nel saldo tra contributi e versamenti, l’Irlanda ha messo nel mirino la digital tax che andrebbe a colpire, nelle intenzioni di Bruxelles, i colossi del web. Ci sono le premesse, insomma, per un braccio di ferro estenuante dal quale il Recovery Fund potrebbe uscire stravolto, ovviamente in peggio.
In attesa di sapere quale sarà la forma definitiva del Recovery Fund, restano rabbia e sospetti per un programma che Conte ha illustrato agli italiani soltanto in parte, nascondendo la polvere, goffamente, sotto il tappeto. Senza spiegarci, ad esempio, che non sarà l’utilizzo sanitario l’unico vincolo: l’erogazione dei soldi andrà di pari passo con il raggiungimento di obiettivi concordati con la Commissione, con la possibilità di sospendere le tranche in caso di mancato rispetto degli impegni presi. Lo ha chiarito bene, in queste ore, il vice presidente della Commissione Ue Valdis Dombrovskis nel corso di un’intervista al quotidiano tedesco Die Welt: “Se non ci sono riforme, il denaro non fluirà. Questa è una conseguenza logica e avviene già per molti programmi europei. Se i paesi non promuovono i loro progetti di riforma o non investono, non possiamo finanziare questi progetti dal bilancio dell’Ue”.
I Paesi dovranno quindi, nello specifico, rispettare le raccomandazioni fornite nel quadro del Semestre Europeo, dalla riduzione della spesa pubblica primaria netta all’accelerazione del processo di riduzione del rapporto debito-Pil, passando per la razionalizzazione delle aliquote Iva e le riforme pensionistiche. Non proprio passaggi irrilevanti, insomma, anzi. Ai quali dovremo però sottostare, pena restare a bocca asciutta di fronte alla crisi economica più grande dell’epoca contemporanea. Ma questo Palazzo Chigi si guarda bene dal farcelo presente.
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