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Il mito a due facce dell’inflazione che blocca l’Ue e rilancia gli USA

Pubblicato il 31/08/2020 18:00

di Gianluigi Paragone.

In questi giorni il mondo monetario ha vissuto un interscambio di binari di notevole impatto, verrebbe da dire storico, facendo capire ai più (chi non ha capito o è in malafede o in difetto di strumenti culturali) la differenza sostanziale che c’è nel governare le politiche monetarie.

La Federal Reserve, infatti, ha annunciato per bocca del suo “governatore” Jerome Powell che i tassi resteranno bassi per molti anni, che – udite, udite! – “il vero problema è un’inflazione troppo bassa”, e che “il nostro obiettivo dominante è il massimo dell’occupazione”. Il presidente della Fed, istituzione autonoma dalla sfera presidenziale, ha compiuto con un capovolgimento del “paradigma inflazionistico” una sinapsi con la Casa Bianca alla vigilia delle elezioni non per favorire Donald Trump ma per coprire l’interesse degli americani. Ha azionato la leva dei tassi d’interesse abbassandola affinché il volume di piena occupazione tornasse alla massima percentuale. La doppia mossa ha comportato quel sottinteso sul controllo dell’inflazione che ci consente di analizzare la ricaduta prossima sull’euro e di criticare ancora una volta l’architettura sbilenca e pericolosamente contraddittoria dell’Unione europea.

Provo a semplificare al massimo. Dopo aver assicurato liquidità come se piovesse (“Mostly out of thin air”, scrisse il New York Times ad aprile) con politiche monetarie illimitate, Jeromy Powell ha spinto sulla piena occupazione rinunciando a quello che per la costellazione eurista è la stella polare: il controllo maniacale dell’inflazione. Più importante della grammatica monetaria in sé è la sinapsi tra politica monetaria, politica macroeconomica, rilancio del lavoro. Un paese che affossa il lavoro è un paese che non ha possibilità di alzarsi e camminare. Un continente che ha paura di mettere al primo posto la piena occupazione non ha futuro.

Lo Stato di Maastricht ha una moneta, ha una Banca centrale ma è intrisa del senso di quella “hybris” che la farà cadere. Nessuno, nello Stato di Maastricht, darà sostanza al concetto della piena occupazione perché da Bruxelles un’economia deve prevalere sulle altre: la Germania deve omologare tutti gli altri governi. In poche parole o si diventa come la Germania oppure non può funzionare. Siccome l’eurozona non potrà mai essere a taglia unica – aggiungo: e perché dovrebbe? – l’intero progetto diventa folle, fanatico e quindi (per quel che mi riguarda) irrealizzabile. Certo, ci sarà sempre qualcuno che spera di fare il presepe perfetto l’anno successivo ma è altresì doveroso consentire che il dibattito sull’uscita abbia una sua dignità. Perché porta con sé i veri grandi temi della socialità: una giustizia sociale, la lotta allo sfruttamento che vale per il piccolo imprenditore umiliato dalle multinazionali come per il lavoratore costretto ad accettare paghe da fame per tirare avanti, il primato dell’economia sull’arte, sulla cultura, sulla bellezza. Gli Stati nazionali non moriranno per quanto forti siano i tentativi di far loro i funerali.


Jean-Paul Fitoussi (il quale non è per nulla pro eurexit) ha il merito di aver messo a fuoco compiutamente la situazione attuale in un libro di facile lettura che consiglio: la Neolingua dell’economia. L’economista francese non concede alcuno sconto al modello di società che l’impianto attuale di regole ha creato: disoccupazione dilagante, sperequazioni sociali causate da salari concorrenziali al ribasso, schiacciamento della piccola e media imprese a favore di una cieca politica di asservimento alle multinazionali e via discorrendo. Fitoussi, tuttavia, ci crede ancora e spera nell’Europa federale: “Che cosa vogliamo fare? O riprendiamo la sovranità che avevamo prima o, molto meglio, creiamo una sovranità europea. Una cosa è certa: così non possiamo continuare”.

Ashoka Mody, economista indiano, nel monumentale “Euro, una tragedia in nove atti” gli risponderebbe con fredda analisi così: nessuna società può risollevarsi partendo dalla moneta o meglio dalla presunzione di creare un soggetto politico partendo da un esperimento monetario. Destrutturare gli Stati sovrani per costruire un esperimento dove al posto della Costituzione c’è un Credo basato sul controllo dell’inflazione significa non avere senso politico, cioé sociale. Così basta la mossa del cavallo di una Fed per rendere l’euro più forte del dollaro e appesantire le esportazioni. Se poi a questo aggiungi che sul mercato interno nell’eurozona la Germania ha fatto carta straccia delle regole sul surplus della bilancia commerciale ecco che l’euro-feudalesimo prende forma: uno Stato dominus, gli altri sotto in condizioni di vassallaggio variabili.

Nello Stato di Bruxelles – concetto che prendo mio dal filosofo francese Michel Onfray – non c’è società, c’è solo senso dell’hybris, la tracotanza che fallisce in tragedia. Per questo la politica non potrà mai considerare irreversibile una moneta rispetto alle esigenze dei popoli. Anche il cardinal Mario Draghi se ne dovrà fare una ragione.