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Gomorra, l’esaltazione della pistola in tv e le “colpe” di Saviano

Pubblicato il 11/11/2024 09:12

“Non vi stupisce il silenzio del governo? Del governo comunale, regionale, nazionale?”, si domanda Roberto Saviano dalle colonne del Corriere dopo aver elencato i giovani morti nel napoletano. Una domanda a cui lo scrittore dà anche la risposta: “Non mi stupisce, la risposta del resto quale dovrebbe essere? La solita: più polizia, più posti di blocco”.


Il pistolotto di Saviano non mi sorprende nemmeno un poco e nemmeno il suo punto ottico, la sua posizione di visione. Del resto Saviano ha costruito principalmente la propria carriera su un libro che è diventato un brand, del quale non si perde un centesimo: Gomorra. Ovvero l’Impero della Camorra con le sue regole, le sue leggi, la sua sottocultura. Da Gomorra è nata la serie tv e da lì sono partite altre produzioni affini e altri libri che invertono il punto di vista. A Gomorra hanno guardato i nuovi artisti di strada della trap per le sfide di rime. Tutte trame a colpi di pistola e di… rispetto. Si spara per essere qualcuno. Si spara per scalare le gerarchie malavitose. Si spara per guadagnare più soldi e più responsabilità nel controllo delle zone di spaccio.


A Roberto Saviano domando ancora una volta se non si sente responsabile di questa esaltazione novellistica che non è racconto giornalistico di fatti ma la stesura di una narrazione dove il Male sta al centro, è illuminato. È Gotham City senza BatMan: in scena c’è solo Joker. Gomorra è molto più del Padrino, sebbene il romanzo di Puzo sia stato il punto di appoggio per i successi successivi di genere.
“Facciamo ordine: cosa conta oggi?”, scrive ancora Saviano. “Cosa conta per un ragazzino (in realtà per tutti) più di ogni cosa? Il denaro. Cosa porta il denaro? Bellezza, essere figo, essere carismatico. Cosa porta carisma e denaro? Comandare, poter sedurre, piacere. E come fai ad arrivarci dove non esistono contratti, dove il lavoro nero è per sempre, dove ogni risparmio e progetto spesso sono impossibili? Entri in una paranza o inizi ad atteggiarti a gran duro per promuoverti e trovare uno spazio. Scegli di avere una pistola, uccidere ed essere ucciso il destino”.


Il pretesto del lavoro nero, del disagio diventano il presupposto socio/politico che vizia il resto del discorso. Quel resto di cui Saviano è stato la penna di successo. Inconsapevole, certo. Ma tant’è. Su quel brand egli ha costruito il suo potere, il suo successo, il suo pulpito. Dal quale non è mai sceso. E dal quale si sente in dovere di dire la propria. Ma non è esente da colpe. Perchè Gomorra è diventata figa, attrattiva. Gomorra fa sentire importanti tutti i pezzi della catena criminale perché nel racconto risalta quella sottocultura che porta i baby killer a fare il gesto della pistola come firma dopo l’omicidio; il ferro diventa icona. Aver sporcato “le mie scarpe bianche” è sineddoche del proprio ruolo, qualunque esso sia. Gomorra è il set che si fa prospettiva. In Gomorra, le forze dell’ordine sono secondarie, sono il sottotesto perchè la “giustizia” se la fanno da soli.


Per questo Saviano pensa e scrive che più polizia non serva a nulla. E chi lo ha detto? Affermando che questa risposta non è servita negli anni, egli offende quegli agenti e quei militari che hanno perso la vita nelle guerre di camorra. Almeno la serie della Piovra aveva come protagonista il commissario Cattani, per la cui morte l’Italia pianse davanti alla tv. Era morto il commissario valoroso, coraggioso, incorruttibile. In Gomorra Cattani non c’è; ci sono i Savastano e quelli come lui che vogliono andare a “prendersi quello che è nostro”. Ecco, il linguaggio diventa la serie, ne costituisce l’impalcatura.
Le forze dell’ordine servono, signor Saviano. Le dico di più: polizia, carabinieri, guardia di finanza, militari, servono più di certe redditizie ma diseducative serie televisive. Prima di fare i pistolotti sulle colpe altrui si faccia un bell’esame di coscienza. Sabato 9 ero a Milano con molti altri protagonisti del mondo politico, culturale e giornalistico per ricordare i 35 anni dalla caduta del muro di Berlino, ospite di Fratelli d’Italia/Ecr. Si tratta di una ricorrenza che Fabio Fidanza tiene viva con importante puntualità. L’occasione è stata perfetta per ricordare la densità storica di quella rivoluzione, cosa portò ad essa: il crollo di un sistema – quello sovietico – ormai al collasso economico, sociale e istituzionale; l’illusione americana di restare l’unico impero sul campo in coincidenza col capolinea della Storia (Francis Fukuyama); la corsa europea verso una moneta unica.


Diciamo che le cose non sono andate esattamente come nei pensieri dei protagonisti: la Storia non si accomoda mai sugli assi cartesiani di chi la pensa. Infatti lo stellone americano cominciò a perdere di lucentezza e l’idea di perpetuare l’ordine mondiale come fosse una estensione dell’impero americano si afflosciò prima con l’attacco alle torri gemelle, poi con la crisi finanziaria e infine con la crescita della Cina, playmaker del ringalluzzito club terzomondista oggi noto come Brics. L’Unione sovietica cadde rovinosamente ma alla Russia, tornata ad accentrare dopo Eltsin la sua ricchezza di gas e petrolio nelle mani del Cremlino, non mancò filo per tessere nuove trame di potere. Infine l’Europa non ha saputo compiere il grande salto politico fermandosi ai soli elementi di natura monetaria. Del resto l’euro fu il modo attraverso il quale Francia e Gran Bretagna, con pieno sostegno dell’Italia, tentarono di mettere il guinzaglio a una Germania che, riunita, avrebbe potuto replicare quel potere che nel Novecento distorse in orribile strapotere.


Al contrario di quel che pensarono Mitterand e la Tatcher (e poi Chirac e Major), l’euro divenne la moneta forte della Germania, cioé un marco svalutato, e i parametri la camicia di forza protestante al peccato del debito. Nei decenni successivi con un euro a suo vantaggio, una facilità di approvvigionamento energetico unica (gasdotto al nord e canale privilegiato con la Russia di Putin con Schroeder uomo- cerniera), e sforamento della bilancia commerciale in violazione delle regole Ue, la locomotiva Germania è andata fortissima. Dopo l’invasione dell’Ucraina e il sabotaggio del Northstream, poco alla volta l’economia tedesca ha cominciato a pagare lo scotto di una rendita di posizione che l’aveva fatta sedere sugli allori.


Gli effetti di questa crisi si cominciano a vedere adesso: i colossi industriali – automotive e siderurgico in testa – chiudono fabbriche e licenziano persone; insomma il colosso sanguina. Il cambio di paradigma industriale più favorevole alla Cina (quella Cina dove esportava fortemente) crea scompiglio sociale con la conseguente ascesa dei partiti ideologicamente più strutturati a raccogliere il malcontento: stop all’immigrazione, difesa delle proprie fabbriche, accuse all’Europa. Trentacinque anni dopo la caduta del muro di Berlino i tedeschi vorrebbero più protezione della propria economia, meno concorrenza di manodopera e non disdegnano una uscita dalla Ue. Trentacinque anni dopo, la Germania potrebbe essere ancora una volta il luogo di una rivoluzione: il crollo della propaganda europeista.

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