Durante il lockdown le aziende, lo Stato, la scuola, tutti coloro che ne avevano facoltà sono ricorsi allo smartworking per non chiudere e per andare avanti. Il lavoro da casa, più semplicemente. Un pc, una scrivania, il pigiama da mattina a sera. All’inizio a qualcuno è anche piaciuto, ha assaporato il piacere di una comodità nuova e ritrovata. La possibilità di lavorare tra le mura amiche, senza trucco, senza cravatte, magari sdraiati sul divano. Ma lo smartworking non è solo questo, è anche altro, e i danni che può provocare sono molti. E non solo a livello psichico, argomento sul quale si potrebbe discutere per giorni, ma anche al mercato del lavoro stesso. C’è, infatti, un aspetto che in pochi sembrano considerare. Più persone stanno a casa a lavorare, meno persone possono lavorare fuori. È tutto quel mondo che lavora intorno ad altro lavoro. I bar vuoti, ad esempio, perché gli impiegati non vanno a prendere più il caffè prima di andare in ufficio. O, come è emerso nell’allarme degli ultimi giorni il comparto mense, un caso emblematico.
A raccontarlo è Maurizio Tropeano su La Stampa, che ha guardato molto da vicino la situazione del Piemonte. A partire dal lockdown le mense aziendali in tutta Italia, in particolare quelle che assicurano il servizio ai dipendenti del settore dei servizi e del terziario, hanno cancellato o ridotto al minimo il servizio e “se non ci sarà un’inversione di tendenza le piccole e medie imprese del settore rischiano l’ecatombe, con almeno ventimila addetti (sui 96 mila totali, l’82% donne) che potrebbero perdere il lavoro in Italia”, denuncia a La Stampa Carlo Scarsciotti, presidente dell’Osservatorio sulla ristorazione collettiva.
Dal suo punto di vista “la scelta di incrementare il lavoro agile con la chiusura di uffici e sedi, pur legittima, dovrebbe anche tener conto dell’impatto sull’intero sistema economico e dei costi sociali e per questo chiediamo un intervento del Parlamento e del Governo perché è necessario ragionare non solo su come cambierà ii lavoro nel futuro ma quali conseguenze avrà per tutta la società”. Nelle prossime settimane riprenderà anche il servizio nelle scuole dove lavorano circa 39 mila addetti.
“La ristorazione aziendale – spiega Tropeano – garantisce circa 210 milioni di pasti l’anno per 1,3 miliardi di fatturato ma la pandemia ne ha cancellati la metà. E se davvero l’obiettivo del governo è di dare regole certe per permettere a 4 milioni di persone di continuare il lavoro agile entro la metà di ottobre, così come annunciato dalla ministra Catalfo, allora diventa difficile ipotizzare una ripartenza massiccia delle mense e il mantenimento di tutti i posti di lavoro, anche perché aumenteranno i costi di gestione. Il rischio di esuberi, dunque è alto ed è per questo motivo che non si può lasciare la gestione della transizione solo alla contrattazione collettiva”.
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