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Il Giappone ricorre alla spesa pubblica: quella che a noi l’Europa vieta come una bestemmia

Pubblicato il 06/12/2019 15:18 - Aggiornato il 08/12/2019 10:19

Notizie dall’altra parte del mondo e che, però, ci riguardano assai da vicino. Il premier giapponese Shinzo Abe ha lanciato un pacchetto di stimoli da circa 13,2 mila miliardi di euro per rilanciare l’economia del Giappone, una misura che è anche il riconoscimento della vulnerabilità del Paese nonostante gli ultimi anni di crescita. Si tratta del primo piano di aiuti all’economia dal 2016 a oggi, con una cifra che corrisponde all’1,9% del Pil e verrà spesa nei prossimi 15 mesi.

Un modo, per il Giappone, di non perdere terreno, col rischio di essere risucchiato nel rallentamento globale dell’economia, e contrastare il recente aumento dell’Iva. Una spesa che fa discutere e che stride con quello che siamo abituati a vedere nel nostro emisfero: qui si discute del Fondo Salva-Stati, l’ormai famigerato Mes, di là si attiva la leva della spesa pubblica per fare da traino, nella convinzione che i privati finiranno per mettersi in scia al vento creato dal governo giapponese. Una parola, “spesa pubblica”, che per i fanatici dell’europeismo suona come una bestemmia.

A ricorrere alla spesa pubblica è tra l’altro un Paese che ha un debito doppio, in percentuale, rispetto al nostro ma dove chi rompe il patto di fiducia con i cittadini è marchiato come traditore, un peso talmente grande che alle volte chi è travolto da scandali finisce per suicidarsi. Non che si debba arrivare a tanto, per carità. Ma la differenza con quanto avviene in Europa di fronte alle malefatte dei colletti bianchi di turno è lampante.

Di mezzo, d’altronde, ci vanno sempre i cittadini dell’Unione, come testimoniato dai recenti annunci di multinazionali come ArcelorMittal che ha messo sul piatto 5 mila esuberi (8 mila quelli in arrivo sul fronte Unicredi). L’ennesima conferma di un sistema, quello europeo, ” quasi destinato al fallimento”. Parole di un premio Nobel, l’economista americano Joseph Stiglitz, che parlava del nostro come di un sistema che “ha tolto ai governi i principali meccanismi di aggiustamento (tassi di interesse e di cambio), e anziché creare nuove istituzioni che aiutassero i Paesi a gestire le nuove situazioni, ha imposto restrizioni su l deficit, debito, e anche riforme strutturali”. Parole che suonano più che mai attuali.

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