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“Trattati come criminali”, Michele Santoro scrive a Mattarella: “La nostra incolumità a rischio”. Cosa è successo

Pubblicato il 03/08/2023 18:50 - Aggiornato il 04/08/2023 10:15

Caro Presidente, spero che non trovi inopportuna questa mia lettera”, è l’incipit della clamorosa missiva che il giornalista Michele Santoro ha inviato al Capo dello Stato, Sergio Mattarella, denunciando il “silenzio assordante” dell’Ordine dei giornalisti e della Federazione nazionale della stampa italiana (Fnsi), asserendo altresì di essere stato trattato, assieme al collega Guido Ruotolo, “come dei criminali”. Parole pesantissime. Ora, entriamo nel dettaglio di ciò che Michele Santoro ha deciso di rendere pubblico. Ricostruiamo la vicenda, e lo facciamo riportando il contenuto della lettera stessa: “Lo scorso 9 luglio ho dovuto apprendere dal quotidiano ‘La Sicilia’ la notizia del deposito da parte dei Pubblici Ministeri di Caltanissetta della richiesta di archiviazione nei confronti del collaboratore di giustizia Maurizio Avola, di Aldo Ercolano, vice di Nitto Santapaola a capo del clan catanese appartenente a Cosa Nostra – scrive Santoro, anche a nome di Guido Ruotolo –, e di altri mafiosi di livello dello stesso clan, iscritti per il reato di strage per gli eccidi del 1992 di Capaci e via d’Amelio”. Tale indagine era stata aperta precisamente in ragione delle dichiarazioni del pentito Maurizio Avola, racchiuse nel libro che il noto conduttore ha scritto a quattro mani con Guido Ruotolo: Nient’altro che la Verità, pubblicato da Marsilio nel 2021. (Continua a leggere dopo la foto)
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“Spiati, pedinati e intercettati”

I due giornalisti sarebbero stati spiati, pedinati, intercettati in auto, sulle loro utenze cellulari, anche con captazioni telematiche (chat, corrispondenze mail e altro) per otto mesi, ininterrottamente. Ora vediamo il perché: nelle pagine di quel libro, il collaboratore di giustizia Avola raccontava la sua vita e “per la prima volta descriveva la composizione del commando e le esatte modalità di esecuzione dell’attentato in cui hanno perso la vita Borsellino e la sua scorta”. Peraltro, nei giorni scorsi, Michele Santoro e Guido Ruotolo, hanno scoperto che sui loro cellulari era presente un trojan, tipicamente utilizzato per le intercettazioni telefoniche: “Negli atti d’indagine, finalmente a mia disposizione, sono venuto a conoscenza di attività investigative estremamente invasive, quali l’uso del trojan nei miei confronti, di Guido Ruotolo e di Ugo Colonna (l’avvocato di Maurizio Avola, NdA)”, scrive ancora Santoro, che dunque afferma di essere stato trattato “come un criminale”, come abbiamo anticipato. I trojan, infatti, tipicamente vengono impiegati per le intercettazioni telefoniche di indiziati e sospettati di reato. Il fatto appare tanto più grave perché “non esiste una prova definitiva della mendacità del collaboratore”. E così Santoro ha deciso di inviare una lettera al Capo dello Stato, sottolineando che “è stata messa a repentaglio la nostra incolumità e dei nostri familiari”. E ancora: “Prima ancora che Nient’altro che la verità venisse distribuito nelle librerie, la stessa Procura, a maggio del 2021, a indagini ancora aperte, in maniera del tutto irrituale e certamente non conforme ai principi codificati, aveva emesso un comunicato che si spingeva a ipotizzare un depistaggio a cui il collaboratore di giustizia aveva partecipato con la complicità dei giornalisti e dell’avvocato difensore”. (Continua a leggere dopo la foto)
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Una richiesta di archiviazione “irrituale”

Leggiamo ancora un altro, lungo, passaggio in cui Michele Santoro ripercorre gli ulteriori sviluppi dell’imbarazzante vicenda: “Secondo il quotidiano catanese non solo i PM ritenevano priva di riscontri attendibili l’inedita narrazione della strage ma avevano acquisito prove inoppugnabili della sua falsità. Perciò la Procura, considerando dimostrata la malafede di Avola, ipotizzava il reato di calunnia nei riguardi dei mafiosi del gruppo Santapaola. La notizia della richiesta d’archiviazione era in quel momento coperta da segreto e veniva diffusa senza che gli interessati, e in primo luogo il difensore di Maurizio Avola, ne ricevessero formale avviso”. E dunque: “Si ricava la sensazione che tutto sia stato generato per confermare un teorema, costruito sulle dichiarazioni (strumentalizzate) di Spatuzza, in merito alla presenza di una persona a lui sconosciuta, che aveva appena intravista, nel garage dove è stata preparata l’autobomba fatta esplodere a via D’Amelio”, ancora nelle parole scritte da Michele Santoro. Poi, leggiamo: “Per gli inquirenti, che non hanno acquisito alcuna prova in merito a questa circostanza, doveva per forza trattarsi di un esponente dei Servizi Segreti. Esattamente ciò che Maurizio Avola, pur confermando le dichiarazioni di Spatuzza e accusandosi di aver confezionato l’autobomba e partecipato alla strage, nega”. (Continua a leggere dopo la foto)
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“Nessuna solidarietà”

Dagli atti che sono ora stati depositati e a disposizioni delle parti, emerge “che gli inquirenti si sono mossi nei riguardi di Avola, del suo difensore e di noi giornalisti, partendo da un libro considerato notizia di reato con una grave intrusione nella libertà d’espressione e nel diritto di cronaca”. Circa la mancata solidarietà dei colleghi giornalisti, come leggiamo nella lettera integrale pubblicata da Agenpress, Michele Santoro si dà una risposta ovvia: “Nel nostro Paese chi si muove al di fuori dei partiti, delle lobby, delle conventicole di vario genere e tipo, di cui anche la cosiddetta Antimafia è purtroppo divenuta una variante, è sempre un isolato esposto a pericoli”. Risalgono alla mente i “professionisti dell’Antimafia” teorizzati da Sciascia. Ma torniamo sul punto: “Ricostruendo come reato la pubblicazione di un libro, prendendo spunto dalla querela di un boss della mafia, sono stato spiato nella mia attività professionale, nel rapporto con le mie fonti e nella vita privata, perfino quando ero a colloquio con il mio difensore, l’avvocato Lorenzo Borré – prosegue la lettera inviata al Presidente della Repubblica – Quanto ai complici con cui avrei agito per architettare le false accuse e il depistaggio non sono stati trovati, semplicemente perché non esistevano. Nessun incontro con elementi estranei è stato annotato e registrato, nessun suggeritore, nessun componente di fantomatiche stazioni di Servizi Segreti, ma solo interlocuzioni con soggetti anche delle istituzioni onde verificare giornalisticamente il racconto di Avola”. (Continua a leggere dopo la foto)
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E la libertà d’espressione?

Infine, Santoro, che parla a nome anche dell’avvocato Colonna e del giornalista Guido Ruotolo, scrive le considerazioni che riportiamo letteralmente: “Mi chiedo se pronunciare giudizi gratuiti rientri nella funzione dei magistrati o se queste affermazioni perentorie finiscano per rappresentare un limite alla libertà di espressione. Un giornalista, nel pubblicare una notizia, deve limitarsi a controllare se quest’ultima sia vera. Nel nostro caso se Avola, come è puntualmente avvenuto, avesse riferito quelle accuse all’Autorità giudiziaria, se il collaboratore fosse stato ritenuto credibile in precedenza e non condannato per calunnia (come mai è stato), se il suo racconto fosse in sé credibile. Accertare che i reati siano effettivamente avvenuti spetta, invece, esclusivamente all’Autorità Giudiziaria che dispone di appropriate forme di verifica e controllo”.

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