C’è chi dice no all’Intelligenza artificiale. È inutile negare i potenziali ed enormi rischi di questo strumento, in nome di un’idea acritica di progresso e modernità. D’altronde, persino Elon Musk e altri mille alti papaveri della Silicon Valley paiono essersi finalmente accorti della pericolosissima deriva che essa potrebbe imboccare se finisse in mani sbagliate, e nel mentre Goldman Sachs ci avverte che nel giro di sette anni l’AI potrebbe soppiantare qualcosa come 300 milioni di posti di lavoro solo negli Stati Uniti. Abbiamo recentemente scritto del colosso dell’editoria digitale Axel Springer che sta smantellando le proprie redazioni e licenziando i giornalisti, in favore proprio di un programma di scrittura basato sull’Intelligenza artificiale, ma altri giornalisti, comici, autori e creativi non ci stanno ad essere soppiantati dalle macchine. Ne dà conto il Financial Times, registrando come nelle ultime settimane siano state intentate diverse cause legali da parte di giornalisti e creatori di contenuti contro le compagnie del cartello Big Tech: tutti costoro sostengono che il loro lavoro venga utilizzato ingiustamente per creare l’Intelligenza artificiale che minaccia di farli fallire. (Continua a leggere dopo la foto)
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Il NYT contro Bill Gates
La causa principale è stata intentata dal glorioso New York Times, che accusa OpenAI e la Microsoft di Bill Gates – che ha investito miliardi di dollari proprio in OpenAI – di utilizzare illegalmente milioni di contenuti giornalistici per “addestrare” modelli linguistici complessi e di grandi dimensioni. Ma è opportuno sottolineare che non è solo un problema di violazione di contenuti protetti da copyright, e c’è un aspetto parimenti significativo di cui tener conto: i creatori di contenuti (per ora) possono guadagnare dal traffico in Rete attraverso la pubblicità digitale, allorché l’utente, ad esempio, viene indirizzato su un determinato sito attraverso un motore di ricerca. Recentemente, un gruppo di ricercatori della Columbia University, dell’Università di Houston e della società di consulenza Brattle Group ha stimato che, se Google desse agli editori statunitensi il 50% del valore creato dai loro contenuti giornalistici, ebbene, dovrebbe sborsare all’incirca 12 miliardi di dollari all’anno. Invece, nel caso del New York Times, una delle maggiori testate a livello globale, riceve appena 100 milioni di dollari in tre anni. Quando, invece, si pone una domanda ad un chatbot come ChatGPT di OpenAI o Bard di Google, non si viene inviati al sito web del creatore, ma si riceve direttamente la risposta, senza mediazioni. Dunque, verrebbe meno anche l’entrata pubblicitaria. Il problema non è avvertito solo nel campo della creazione dei contenuti: anche i grandi marchi stanno creando i propri influencer virtuali sui social media con l’Intelligenza artificiale, in modo da non dover pagare i circa 1.000 dollari per post che alcuni influencer “umani” richiedono per le proprie sponsorizzazioni. (Continua a leggere dopo la foto)
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La causa contro Google
Anche gli scioperi degli attori e degli scrittori di Hollywood dello scorso anno lamentavano lo strapotere crescente dei software in luogo del frutto dell’ingegno umano. Una recente causa intentata dall’organizzazione giornalistica dell’Arkansas Helena World Chronicle in un’azione collettiva contro Google e Alphabet sostiene che gli accordi di “abbinamento illegale”, in cui il gigante della ricerca si appropria indebitamente dei contenuti degli editori e li ripubblica sulla sua piattaforma, sono “estesi ed esacerbati dall’introduzione di Bard da parte di Google nel 2023″, dal momento che il chatbot si è addestrato sui contenuti degli editori, dall’Helena World Chronicle al Washington Post, nessuno dei quali è stato risarcito.
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