Mentre Christine Lagarde cerca di rassicurare i mercati annunciando come la contrazione economica dovrebbe fermarsi all’8%, al di sotto di quanto sostenuto da stime precedenti, a tenere banco è il dibattito su come dovrebbero essere spesi i tanto discussi soldi del Recovery Fund. Quelli che, come ormai noto, non arriveranno prima del 2021. E che i cosiddetti “Paesi frugali”, contro i quali l’Italia ha duramente battagliato in questi mesi, vorrebbero spesi solo in parte e non nella totalità dell’ammontare del “Piano pandemia” (1.350 miliardi di euro). Le ipotesi sul tavolo per investirli sono tante.

Il dibattito si è incentrato, in Italia, sulla rete unica della fibra, tema che ha riacceso le polemiche sulla possibilità che la gestione passi in mano a Tim con la compiacenza di Cassa Depositi e Prestiti. Oppure sulla lotta in difesa dell’ambiente, argomento che si collega istantaneamente a un altro, ben più specifico e delicato: la situazione dell’ex Ilva di Taranto, trappola che il governo non è ancora riuscito a disinnescare e intorno alla quale i Cinque Stelle, quelli del “Basta Ilva” gridato in piazza, hanno già incassato l’ennesima figuraccia. L’ultima ipotesi è quella di una riconversione all’insegna dell’idrogeno, annuncio che per la verità ha lasciato piuttosto freddi gli stessi abitanti della città pugliese. Ma il rischio, a detta degli esperti, è un altro.

Quello che Conte, il Pd e i Cinque Stelle continuano a non voler vedere, infatti, è la lunga lista di problemi strutturali che l’Italia si trascina dietro come pesanti macigni. Senza intervenire su quello, i soldi del Recovery Fund rischiano di diventare solo un’altra occasione sprecata. Serve, innanzittuto, un programma di sostegno serio alle piccole e medie imprese, realtà che costituiscono un vero e proprio patrimonio per il nostro Paese e che pagano più di tutti il conto, salatissimo, della crisi economica. In quel settore è custodito il segreto del successo del Made in Italy. E proprio lì, però, Bruxelles non sembra intenzionata a destinare le proprie risorse.

In un’Unione sempre più di nome e sempre meno di fatto, nata per tutelare innanzitutto gli interessi di Francia e Germania, l’eccellenza italiana sembra vista come un’erbaccia da estirpare a tutti i costi. Per convenienza, per invidia o chissà per cos’altro. Bruxelles ci offre, così, un indebitamento sempre maggiore e un’ingerenza crescente da parte delle potenze straniere nei nostri settori-chiave. E chi se ne frega se, nel frattempo, i piccoli imprenditori annaspano, i posti di lavoro saltano. I pesci piccoli devono pagare i loro errori a caro prezzo, mentre le banche vengono puntualmente salvate. Questa, d’altronde, è l’Europa che piace a Parigi e Berlino.
Ti potrebbe interessare anche: Cassese, la denuncia del grande giurista italiano: “Conte ha firmato decreti illegittimi”