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Mittal, i veri motivi della fuga da Taranto: tutti gli errori del gruppo indiano tra bugie e interventi fasulli

Pubblicato il 18/11/2019 11:36 - Aggiornato il 18/11/2019 15:06

Negli ultimi giorni si è fatta sempre più palese, dopo che anche noi lo abbiamo sostenuto fin dall’inizio di questa vicenda, che dietro la fuga di Mittal da Taranto ci siano motivi esclusivamente industriali, e che lo scudo legale non c’entra nulla. Oggi con un pezzo dettagliatissimo, Luca Pagni e Luca Piana ricostruiscono su Repubblica l’intera vicenda, andando a sottolineare le falle che erano già presenti nell’accordo iniziale che portò Mittal ad aggiudicarsi l’ex Ilva. Carlo Mapelli, professore di Iron-making & Steelmaking al Politecnico di Milano, conosce l’Ilva molto da vicino, e ha spiegato a Repubblica che nel piano industriale di Arcelor c’erano già diverse criticità: “Venne prevista, ad esempio, una scansione tra lo spegnimento degli altoforni e la loro riaccensione che non prevedeva il rifacimento del numero 2, che dal punto di vista tecnico aveva una vita utile residua molto breve, al massimo a fine 2018”.

Il rifacimento dell’altoforno 2 necessiterebbe di un investimento stimato in 115 milioni, che però non fu previsto: “L’unica conseguenza che se ne può trarre è che oggi, per allungarne la vita residua, i tre altoforni in attività vengano fatti funzionare in modo alternato, riducendo la capacità produttiva dell’impianto”, dice Mapelli. A inizio giugno Arcelor aveva an-nunciato che non avrebbe rispettato l’impegno di produrre 6 milioni di tonnellate d’acciaio, attribuendone la motivazione alla “crisi del mercato”. Il “buco”, però, è spiegabile con il fatto che l’altoforno 2 sia ormai oltre fine corsa: il gigantesco 5, capace di produrre 3,85 milioni di tonnellate di ghisa l’anno (che diventano circa 4,2 milioni di acciaio dopo il passaggio in acciaieria), non sarà pronto fino al 2023. E fino ad allora, è come se Taranto fosse zoppa, senza la possibilità di tenere i ritmi promessi.

Mapelli sottolinea altri aspetti: “Non si è intervenuti sul sistema di smaltimento del monossido di carbonio emesso durante la conversione della ghisa in acciaio. Ai tempi dei Riva veniva bruciato, con l’accensione delle torce, che dopo l’intervento della magistratura è possibile soltanto in situazioni d’emergenza. I gasometri che stoccano il gas prodotto durante la conversione della ghisa in acciaio sono troppo piccoli e quando le centrali termoelettriche dell’impianto non sono in grado di riceverlo, l’unica alternativa è bloccare la conversione della ghisa e la produttività dell’impianto scende. D’altra parte le centrali termoelettriche hanno già grosse difficoltà a ritirare i gas che provengono dagli altiforni”.

Secondo il professore, questo è un aspetto decisivo per rispettare gli equilibri tra produzione e inquinamento: “In un ciclo integrato basato sul carbone una carenza del genere è in grado di bloccare a catena tutto il processo produttivo. I continui stop and go degli impianti peggiorano la situazione”. L’elenco di altre mancanze compilato da Mapelli è lungo: “La mancanza di moderni ‘forni siviera’, che prima della solidificazione consentono di togliere ossigeno e zolfo dall’acciaio, un processo necessario per rivitalizzare la produzione di tubi di alta qualità; il non aver previsto investimenti sulle colate continue per migliorare la qualità superficiale dei prodotti e limitare gli scarti, oppure quelli necessari per rendere più efficienti i trattamenti sottovuoto. Oltre a generare problemi di pro-duttività, queste carenze non han-no consentito il miglioramento del-la qualità richiesto dal mercato”.

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