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Perché lo smart working rischia di essere una fregatura per i lavoratori

Pubblicato il 04/08/2020 14:25 - Aggiornato il 05/08/2020 11:09

di Savino Balanzo.

Qualche giorno fa il Segretario Generale della CGIL era ospite di In Onda, su La7, e tra le varie questioni è venuta fuori la storia dello smart working. Con la probabile volontà di stuzzicare e di provocare, Telese e Parenzo hanno lanciato un servizio che provava a descrivere questa modalità di lavoro come una figata fotonica, raccontando di una lavoratrice che ogni mattina ha la possibilità di lavorare direttamente dalla spiaggia, da Fregene (contenta lei…), col suo laptop e il cappuccino in riva al mare. Insomma, ne veniva fuori uno sballo siderale e noi tutti ad aspettare che Landini dicesse qualcosa, un po’ come Nanni Moretti, quando urlava davanti alla TV, sperando che D’Alema dicesse qualcosa di sinistra. Degli illusi, noi come lui: abbiamo visto un Landini spento, che provava a borbottare qualcosa, ma con un’efficacia praticamente nulla, a nostro avviso esprimendo una capacità di persuadere simile a quella della Fornero quando parla di lavoro, una roba così.

E niente, non ci diamo per vinti e proviamo a fare un po’ d’ordine.

Sono in tanti a ripetere ossessivamente in queste settimane che nulla sarà più come prima ed è certamente un’affermazione spaventosa: prepariamoci, lo abbiamo già prefigurato, sorretto dalla retorica della crisi post Covid-19 si sta già preparando l’ennesimo affondo che gli alfieri dell’integralismo liberista hanno deciso di riservare alla classe lavoratrice di questo Paese. Il tema dello smart working è certamente uno di quelli centrali e la battaglia che su questo terreno deve essere combattuta è di vitale importanza. Il mondo del lavoro sarà inevitabilmente e profondamente condizionato dai mesi alle nostre spalle e, a costo peraltro di essere definiti strumentalmente antistorici, mai come in questo momento si rende necessaria una approfondita discussione su questa modalità di prestazione lavorativa.

Per smart working si intende la possibilità di lavorare da remoto rispetto ai locali aziendali: non necessariamente da casa, a meno che non lo preveda un accordo sindacale o una norma di specie, bensì genericamente da remoto. È stato accolto con entusiasmo dai lavoratori: garantirebbe una miglior conciliazione dei tempi di vita e di lavoro e in linea di principio consentirebbe un più efficiente work/life balance. Una cosa va detta subito a scanso di equivoci: lo smart working durante il lock down ha permesso di salvaguardare la possibilità per molti di continuare a lavorare, ha consentito a molte aziende di continuare ad operare e, conseguentemente, ha fatto bene al sistema e probabilmente ha salvato parecchi posti di lavoro.

Premesso questo, tuttavia, superata la parentesi strettamente emergenziale (nonostante il Governo insista nel prorogarla per salvare qualche poltrona), ora occorre avanzare alcune riflessioni e soprattutto comprendere che lo smart working necessita assolutamente di una regolamentazione che ne contenga le possibili esternalità negative.

Il primo tema che si pone è di natura strettamente economica e, se vogliamo, politica: questa modalità di lavoro garantisce importantissimi risparmi al datore di lavoro, che non dovrà più preoccuparsi delle navette aziendali, delle mense, in molti casi dei buoni pasto, della gestione degli spazi (banalmente le pulizie, l’acqua, la corrente elettrica, il riscaldamento), della gestione hardware. Innumerevoli risparmi si registrano anche sul piano della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro: sia, e probabilmente soprattutto, sul piano dell’adeguamento alla normativa, che sulla predisposizione di tutti i presidi e i dispositivi previsti dalla legge. Bene, tutti questi risparmi vanno nelle tasche del datore di lavoro. A prima vista questo potrebbe apparire anche equo, ma in effetti non è così pacifico e basta guardare a tutte le recenti ristrutturazioni e alle riorganizzazioni industriali delle grandi multinazionali che operano sul territorio italiano: ponendo come obiettivo quello del rilancio dell’impresa e quindi la necessità di ricavare risparmi da reinvestire nell’innovazione tecnologica (cosa che peraltro puntualmente non accade), non hanno praticamente mai mancato di chiedere enormi sacrifici economici ai lavoratori. Ebbene, specularmente, i lavoratori in questa circostanza dovrebbero essere quantomeno parzialmente co-destinatari degli effetti positivi provocati dai risparmi contingenti legati allo smart working: se non con un riconoscimento immediato salariale, almeno con un credito che li protegga da ulteriori erosioni nei piani industriali a venire. Nessuna organizzazione sindacale ad oggi pone il tema: nessuna.

Non solo i lavoratori non vedono il becco di un quattrino relativamente a tali risparmi, ma in molti casi sono costretti a sobbarcarsi nuove spese e veniamo così al secondo punto: è necessaria una connessione internet, un aggravio delle spese legate all’energia elettrica, ma soprattutto la predisposizione di uno spazio idoneo al lavoro. Parliamoci chiaro: lavorare su una poltrona ortopedica e conforme con la normativa in materia di salute e sicurezza non è come stare seduto per otto ore (se ti va bene) sulla sedia del soggiorno di casa, come pure è necessaria una illuminazione adeguata e uno spazio confortevole e che garantisca benessere (come prevede il testo unico in materia) al lavoratore. E già si immaginano le obiezioni: stiamo a pensare alle poltroncine ergonomiche e ce ne freghiamo dei riders che consegnano la pizza a casa privi di tutele reali o di chi è schiacciato dal caporalato nelle campagne foggiane: è il più grande favore che si possa fare a chi desidera erodere i diritti dei lavoratori nel nostro Paese, quello di abbandonarsi alla squallida retorica di chi li racconta come privilegi. La sfida è una e una soltanto: estendere i diritti non lasciando per strada conquiste che sono il frutto di anni e anni di lotte. Lo smart working rischia di acuire le differenze già esistenti tra i lavoratori: quelli che hanno una bella casa e una condizione di partenza confortevole lavoreranno bene; chi vive in cinquanta metri quadri con 3 figli, il cane e il gatto si dovrà arrangiare. Così non va bene.

C’è chi però è stato molto più bravo di altri a cantarcela e ha rifilato lo smart working come un regalo, una vera e propria concessione octroyée donata alla classe lavoratrice insieme alle brioches, non dimenticando al momento opportuno di ricordare che tutto ha un prezzo e, ci raccontano questi maialini salvadanaio, sarebbero necessarie misure specifiche per rendere possibile quella che disegnano come una beneficienza: non potendo controllare il lavoratore sul luogo di lavoro, provano a ricattarlo richiedendo un allentamento della normativa sul controllo a distanza, magari premendo sul sindacato perché sigli un accordo specifico. È accaduto persino nelle settimane più acute di pandemia, quando lavorare da casa era questione di sopravvivenza vera e propria. Questa è una delle trappole più pericolose attorno a tale modalità di lavoro: convinto di conquistare una posizione che gli garantisca di lavorare comodamente da casa in pigiama, in realtà il lavoratore si pone letteralmente sotto l’occhio del grande fratello, rischiando di essere monitorato, real time, ogni istante della sua giornata lavorativa. Un vero e proprio disastro con ricadute psicologiche da stress da lavoro correlato, difficilmente calcolabili per quanto ingenti.

Se qualcuno nutre dubbi sul punto, gli basti leggere le recenti dichiarazioni di Ichino, cavaliere della “sinistra” (ci vuole stomaco a definirla tale) liberista, che recentemente ha sputato in faccia a centinaia di migliaia di lavoratori pubblici, dichiarando che in smart working spesso fanno vacanza.

Eppure si arriva facilmente ad affermare che la produttività del lavoratore aumenta: e vorremmo ben vedere. Questo non accade solo a causa di un possibile allentamento delle norme in materia di controllo a distanza e del conseguente impennarsi della pressione sull’individuo perché renda esponenzialmente di più: c’è l’enorme questione della disconnessione.

Sono già tantissimi i lavoratori che denunciano il fatto di non riuscire praticamente mai a staccare da lavoro se in smart working: lavorando da casa e adoperando dispositivi mobili diventa assai più complicato disconnettersi dall’attività lavorativa e inevitabilmente capita di sentirsi costretti a lavorare diverse ore in più al giorno. Ore che, ça va sans dire, non saranno di certo retribuite. Il danno è enorme: prima di tutto per l’individuo, che vedrà aumentare il proprio lavoro e si vedrà negato il diritto alla retribuzione, ma anche per l’intera collettività dei lavoratori, che vedranno complessivamente alterati i calcoli relativi al carico di lavoro pro-capite e che assisteranno inermi di conseguenza alla compressione delle politiche occupazionali da parte dell’azienda, la quale avrà naturalmente minor bisogno di nuovo personale, godendo di un gran numero di ore lavorate in più (a costo zero!). Una vera e propria catastrofe: mentre l’onesta piccola e media imprenditoria si lecca le ferite sperando di riuscire a ripartire, le grandi multinazionali cominciano già a leccarsi i baffi e affilano gli strumenti di concorrenza sleale da sguinzagliare a discapito delle prime, inevitabilmente destinate a soccombere.

E poi c’è il grande tema della disgregazione della comunità del lavoro: tante, tantissime volte, abbiamo provato a sottolineare come la Costituzione affidi ai lavoratori il compito di sorreggere le colonne della democrazia italiana. Per svolgere questo delicatissimo incarico essi devono essere comunità: devono confrontarsi, raccontarsi vicendevolmente difficoltà e problemi, costruire coscienza e senso di appartenenza, elaborare un profondo e sentito spirito solidale. È la premessa alla lotta, alla rivendicazione, all’esercizio di fondamentali diritti politici in azienda e fuori di essa. Il mondo del lavoro italiano viene da anni e anni di disgregazione del fronte del lavoro: esternalizzazioni, delocalizzazioni, appalti, outsourcing, sono fenomeni drammatici per la comunità nazionale del lavoro, i quali si affiancano alla costituzione dei finti gruppi industriali, come pure all’introduzione della piena fungibilità tra i lavoratori. Dinamiche e tendenze volte peraltro a sterilizzare ogni forma di lotta e di rivendicazione, puntando alla piena intercambiabilità degli individui, come di interi comparti, nell’ambito dei processi aziendali.

Abbiamo dinanzi a noi sfide epocali, battaglie che se perse vedranno drammaticamente compromesso il futuro della classe lavoratrice italiana, e la realtà cambia repentinamente, se non precipitosamente: non possiamo permetterci di affidare questa lotta a un mondo sindacale vecchio, inadeguato, poco convincente e per nulla credibile.

Lo smart working deve essere affiancato da metodi e strumenti che consentano ancora ai lavoratori di vivere la loro comunità, che li sottraggano a quell’inevitabile e profondissimo senso di solitudine che è preludio fatale di individualismi e divisioni in un fronte del lavoro a quel punto destinato a nuove e laceranti sconfitte.