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Andrea Orlando Ministro del lavoro: non è una buona notizia

Pubblicato il 14/02/2021 16:13 - Aggiornato il 14/02/2021 16:16

di Savino Balzano.

In molti hanno trascorso la giornata di ieri assistendo alla sfilata dei ministri che andavano a giurare, pensate un po’, proprio sulla Costituzione dinanzi a Mattarella.

Il tema principale ovviamente era uno: chi indosserà il paltò?

Mentre uno stuolo di opinionisti affollavano le reti TV per fornire commenti scialbi, dopo averci inondato di previsioni mai realizzatesi, nessuno si degnava (eccezion fatta per Gianluigi Paragone) di constatare il dato più evidente: una contraddizione cocente tra ciò che Draghi per molti avrebbe dovuto rappresentare e quello che poi è stato lo spettacolo raccapricciante di una squadra a dir poco scadente.

Non entro nel merito dei nomi, sarebbe davvero troppo facile, mi limito a notare come non possa questo certamente definirsi il governo “dei migliori” e come Draghi non sia riuscito a mettere in riga i partiti. Mi pare piuttosto il contrario: gli hanno fatto ingoiare quello che volevano. È stata piuttosto mediazione, un accordo tra Bruxelles (rappresentata da Draghi) e i quattro scalzacani che c’erano prima: ovviamente l’accordo prevede anche che il Prof. vada al Quirinale dopo Mattarella.

Un ministro però metterei sotto la lente d’ingrandimento e per quanto mi riguarda non può che essere quello del lavoro.

A parte Lidia Undiemi, nessuno mi pare abbia constatato l’aspetto più importante di tutti e ricorro alle sue stesse parole: «è stata commentata qualsiasi cosa, tranne che il ministero del lavoro è stato assegnato al pd (Andrea Orlando n.d.r.), e non è un dettaglio, perché con lo sblocco dei licenziamenti succederà di tutto, tipo che qualcuno sentirà la necessità di “flessibilizzare” (precarizzare) ancor di più il lavoro».

In molti considerano il Jobs Act come il mostro partorito dalla mente perversa di Matteo Renzi e quasi vorrebbero ricondurlo a Italia Viva: vorrei ricordare che, quando quelle norme vennero alla luce, a guidare l’esecutivo ci fosse il Partito Democratico e che Renzi godesse di un sostegno praticamente bulgaro all’interno della sua forza politica. Era il Segretario di tutti, compreso di Andrea Orlando.

E proprio a proposito del nostro Orlando, vorrei ricordare due uscite: entrambe relative a un’intervista rilasciata a Radio Rai nel gennaio 2020. Così iniziano a famigliarizzare con le idee illuminate che lo guidano.

Aprì affermando: «credo che vada varato uno Statuto dei lavori di questi tempi, che riguardi anche le partite Iva, che sono nelle stesse condizioni dei lavoratori parasubordinati (che poi sono anch’essi autonomi. Forse voleva dire subordinati? Poco importa. N.d.r.)». Potrebbe suonare una cosa buona, ma certe affermazioni vanno lette con grande attenzione: passare dallo statuto dei lavoratori a quello dei lavori costituisce un cambiamento di paradigma fondamentale. Significa spostare l’attenzione dalla persona verso qualcos’altro. È alla persona, invece, che il comma secondo dell’art. 3 della Costituzione fa riferimento quando prescrive che «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che (…) impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Inoltre, Orlando deve spiegarci bene cosa intenda per estensione dei diritti: se intendesse, ad esempio, estendere i presidi di tutela dei lavoratori dipendenti a quegli autonomi (assai improbabile) saremmo felici di sostenerlo; se, viceversa, pensasse che quei diritti siano oggi “insostenibili” (magari per via della pandemia) e volesse tracciare una media che indebolisca di fatto le tutele del lavoro subordinato, allora non saremmo per nulla d’accordo.

In tutta franchezza penso che sia più plausibile proprio il secondo intendimento, tanto è vero (e arriviamo all’altra citazione della stessa intervista) che lo stesso Orlando chiosava sostenendo che: «quanto al Jobs Act aver tolto l’articolo 18 ha avuto un forte impatto simbolico, ma non so sei i benefici di quella legge dipendano dall’averlo tolto. E non sono sicuro che ripristinarlo sarebbe decisivo». Prima di tutto evidenzio come Orlando parli di Jobs Act e di benefici: già questo dice tutto, ma andiamo oltre. A parte il fatto che il Jobs Act non ha modificato l’art. 18 (è stata la Fornero a farlo e speriamo che qualcuno lo aiuti a capirci qualcosa su al ministero), provate a seguire il ragionamento: nonostante non riconduca all’abolizione della reintegra in caso di licenziamento illegittimo alcun vantaggio (lo dice lui stesso!), tuttavia ritiene, seppur con scarsa convinzione, che ripristinarlo non sia un’ipotesi perseguibile. Tradotto in altri termini si potrebbe dire: «levarvi l’art. 18 non è servito a nulla, ma nel dubbio vi attaccate al piffero». E siccome l’abolizione della reintegra (operata anche dal Jobs Act, ma mediante il contratto a “tutele crescenti”) ha significato l’impossibilità di tornare a lavoro seppure un giudice ti dica che hai ragione, la dice assai lunga sulla cultura del diritto e sull’attaccamento che il nuovo Ministro nutre nei confronti della visione costituzionale del lavoro.

Francamente non saprei se Orlando si sia presentato con o senza paltò ieri a giurare, non mi interessa, ma sono molto preoccupato: le sfide che attenderanno il mondo del lavoro nei prossimi mesi avranno una portata storica e non possiamo permettere che a guidarci siano ancora le stesse logiche e le stesse maledette idee liberiste, madri del precariato che ci affligge da anni. Non possiamo permettere che la Costituzione venga messa ancora in secondo piano.