di Salvatore Di Grazia
I ricorrenti episodi di cui l’orrendo caso dei “ladri di bambini” della Val d’Enza è un paradigma, fanno comprendere anche ai non addetti ai lavori gli elementi critici, le deviazioni, le anomalie della giustizia minorile nella gestione dei casi di sottrazione dei bambini alla loro famiglia. Emblematico è il caso descritto, in epoca non sospetta, nel mio libro Come ai tempi di Erode- Le prassi anomale della giustizia minorile.
Il fatto che da tempo siano gli avvocati a sottolineare le distorsioni, gli anacronismi ed in ultima analisi i guasti della giustizia minorile non deve sorprendere: essi sono i coprotogonisti senza potere, e spesso spettatori a malapena tollerati, di una attività giurisdizionale in senso improprio, i cui esiti troppo spesso consistono in provvedimenti gravemente ingiusti.
Sono il risultato di apprezzamenti personali dei Giudici, basate su opinioni non verificate né verificabili provenienti dal Servizio sociale. Sono casi che, spacciati come esempi di buona amministrazione, specie in Regioni come l’Emilia Romagna, il Piemonte, la Lombardia, evidenziano un problema di mancata tutela dei diritti umani, percepito dalla società civile, ma non dai soggetti istituzionali quali i Servizi Sociali, giudici e amministratori.
L’uso da parte dei social e dei media del termine “malagiustizia”, mutuato da quello di “malasanità” può apparire motivo, o piuttosto pretesto, per l’arroccamento del sistema di giustizia minorile (non solo della magistratura ma anche degli operatori sociali, comunità di accoglienza) sulle proprie posizioni.
In realtà partendo dalla nobile motivazione di voler proteggere una categoria come quella dei bambini, ritenuti e definiti come fragili, deboli, incapaci di tutelare i propri interessi, il legislatore ha attribuito ai poteri istituzionali, giudici e operatori sociali, la funzione di interpreti del best interest of the children, del migliore, esclusivo, interesse dei minori.
La conseguenza è stata una lunga onda di ingerenza nei rapporti tra genitori e figli, cominciata alla fine degli anni ’60, fattasi sempre più estesa ed invadente. In sostanza al posto dei genitori l’ordinamento ha messo i giudici e gli operatori sociali. Questa concezione dei poteri dello Stato sulla famiglia è sintetizzata dal titolo di un libro di Meucci, I figli non sono nostri.
Vero è che la tesi di Meucci era volta ad una critica al modello dell’individualismo, del genitore che non accetta controlli: i figli sono miei e ne faccio quello che voglio. Tuttavia, per quel fenomeno dell’eterogenesi dei fini, cioè per il sommarsi delle conseguenze e degli effetti secondari dell’agire, che modificherebbe gli scopi originari, questa ingerenza motivata da nobili esigenze nella prassi è divenuta talmente invadente l’autonomia della famiglia, per cui è succeduta una profonda diffidenza anzi ostilità, perché gli operatori pretendono di avere valori e pretendono, quel che è peggio, di imporre i loro valori.
Un siffatto modo d’intendere la funzione sia del magistrato minorile, sia, addirittura, degli operatori dei Servizi, porta alla demonizzazione di chi si permette di dissentire e rilevare gli errori che sono inevitabili per tutti. Poiché i predetti si ritengono gli unici depositari della verità, l’attività difensiva dei genitori è mal sopportata o addirittura stigmatizzata, soprattutto dal Servizio, come attività pregiudizievole ipso facto per il minore. (Continua alla parte 2: clicca qui)
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