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Il mondo delle bioplastiche: viaggio in un futuro senza petrolio

Pubblicato il 27/08/2019 12:11

Onnipresente, dagli abissi marini alle rocce fino allo stomaco degli animali. Al punto da spingere gli scienziati a coniare il neologismo, molto triste, di “plasticocene” per definire la nostra epoca, caratterizzata dal forte inquinamento ambientale legato all’uso e abuso di plastica. Un fenomeno da contrastare innanzitutto con la riduzione dei rifiuti, la considerazione del loro impatto ambientale in tutte le fasi di vita. Ma anche concentrando le attenzioni su nuovi materiali, puntando con decisione sulla ricerca e l’innovazione della cosiddetta chimica verde.

Un modo, quest’ultimo, per avere imballaggi e oggetti che possano garantire performance analoghe a quelle della plastica da petrolio, senza però averne gli svantaggi appena citati. Tra le risposte possibili, quella più a portata di mano è la cosiddetta bioplastica, termine con il quale si definisce un materiale prodotto con elementi presi in natura. Le bioplastiche naturali, quelle definite “a base biologica”, sono spesso anche biodegradabili, solitamente attraverso impianti di compostaggio industriale. Nel caso questo non fosse possibile, si può invece ricorrere al riciclo.

Una delle bioplastiche più utilizzate , di origine vegetale e biodegradabile in impianti di compostaggio industriale, è l’acido polilattico (PLA), prodotto con amido vegetale fermentato come mais, canna da zucchero o polpa di barbabietola da zucchero. L’utilizzo più frequente è nella produzione di bicchieri e di contenitori per alimenti e bevande da asporto. Una soluzione che presenta però anche qualche problema, come la difficoltà nel far comprendere il corretto processo di smaltimento e il fatto che sia prodotto con vegetali pensati per l’alimentazione umana e animale, dei quali bisognerebbe così eventualmente aumentare la disponibilità.

La soluzione migliore di fatto è una combinazione di varie strategie. La via maestra è quella di affiancare alla riduzione degli imballaggi e del monouso, nonché all’evoluzione del design dei prodotti, diverse tipologie di bioplastiche, preferendo quelle derivanti da scarti o da materiali più facilmente producibili o reperibili come alghe e funghi. Tutto ciò continuando ovviamente a investire in ricerca e sviluppo di soluzione sempre più sostenibili ed efficienti.

L’Italia è competitiva in questo ambito, avendo la fortuna di poter vantare la presenza sul suo territorio di un’azienda leader nel settore e protagonista di un imponente operazione di riconversione dell’industria chimica tradizionale. Si tratta di Novamont, guidata da Catia Bastioli, che con il suo Mater-Bi ha intuito per prima l’importanza di puntare su pellicole degradabili e compostabili derivanti dall’amido di riso, mais, grano, patate e manioca.

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