Nel bel mezzo della follia Covid, a un certo punto – tra le tante altre bizzarrie che il nostro Paese ha dovuto subire – sono spuntate anche le cosiddette U-Mask. Era il periodo in cui senza bavaglio non potevi mettere il naso fuori di casa e le aziende fiutarono l’affare. Le mascherine alternative spopolarono soprattutto tra i vip, con Chiara Ferragni e Fedez in testa (mettiamo qui un post a caso in cui li si vedono indossarle). Ma perché ora si torna a parlare di loro? Per la prossima pandemia annunciata dall’Oms? No, perché il Tar del Lazio ha respinto i ricorsi di U-Earth Biotech Ltd (capofila inglese) e Pure Air Zone Italy srl (controllata italiana con sede a due passi da San Vittore), che nell’ottobre 2021 sono state multate per 450mila euro, sostanzialmente per aver sfruttato l’allarme e “per la pratica commerciale scorretta consistente nella promozione e vendita con modalità asseritamente ingannevoli e aggressive di mascherine protettive U-Mask”. Ricapitoliamo… (Continua a leggere dopo la foto)
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Le U-mask, per chi abbia avuto la fortuna di dimenticarsele già, sono le mascherine aderenti che in piena pandemia iniziarono a spopolare tra politici, vip e sportivi. Le aziende produttrici esaltavano il “filtro attivo a 4 strati”, l’efficacia contro gli agenti patogeni “fino a 200 ore di respirazione effettiva” e il livello di protezione “prossimo al 99%”. Tutti questi fattori contribuirono al boom di vendite che arrivò a 15 milioni di euro ma anche all’attenzione dell’Antitrust che volle vederci chiaro. C’era il sospetto, infatti, che le aziende potessero aver sfruttato l’allarme sanitario per guadagnare. Dopo svariate segnalazioni di singoli utenti e dell’associazione Codici “su profili di possibile illiceità” nelle attività di promozione e vendita di questi presunti dispositivi di protezione. Dopo gli accertamenti, l’Authority comminò la multa da quasi mezzo milione. E poi? (Continua a leggere dopo la foto)
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U-Earth Biotech e Pure Air Zone si sono rivolte al Tar per ottenere l’annullamento delle sanzioni, sostenendo in un ricorso molto articolato di non aver ingannato i clienti. Ma, come riporta Il Giorno, “il Collegio ritiene che la condotta contestata sia senz’altro riconducibile alla nozione di pratica aggressiva, avendo il professionista esercitato nei confronti dei consumatori un indebito condizionamento del loro processo decisionale, sfruttando la situazione emergenziale e la scarsità nell’approvvigionamento delle mascherine”. E ancora: “Attraverso il riferimento alla maggiore efficacia di U-Mask rispetto alla media dei dispositivi riconosciuti come altamente protettivi (Dpi), addirittura equiparabile a quella degli Ffp3, il professionista ha indotto indebitamente il consumatore all’acquisto del prodotto reclamizzato, le cui qualità vantate non erano in realtà debitamente comprovate“. (Continua a leggere dopo la foto)
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I giudici hanno sottolineato lo scenario dell’epoca: “Il momento iniziale di tali condotte è collocabile in un contesto in cui la capacità di valutazione dei consumatori risultava già alterata dalla situazione di particolare allarme sanitario, dovuta alla rapida e ampia diffusione del contagio nei mesi precedenti”. E anche a campagna vaccinale avviata, “la pandemia da Covid-19 è stata caratterizzata da una recrudescenza del fenomeno, che ha comportato l’adozione di varie misure di contenimento, graduate in funzione della gravità della situazione sanitaria”.
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