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“Si reinfettano dopo aver assunto il farmaco”. Ecco l’ultima “fregatura” della “lotta” al Covid

Pubblicato il 05/08/2022 16:56

“Effetto rebound”. Si chiama così la scoperta, non senza sorpresa, di essere di nuovo positivi al Covid appena dopo essersi negativizzati, a poco tempo dall’assunzione di Paxlovid (nirmatrelvir). Il Paxlovid è un antivirale raccomandato dall’Oms contro Sars-Cov-2, sviluppato da Pfizer per il trattamento precoce degli individui positivi, ma ad alto rischio di progressione verso forme gravi di Covid.
È esattamente quello che è accaduto in questi giorni al presidente americano Joe Biden, che è stato curato, appunto, con Paxlovid, ma alla fine del trattamento è tornato positivo. Il capo della Casa Bianca si era ammalato il 21 luglio; il tampone negativo era seguito il 26. Il giorno dopo tutto si è ribaltato: un altro test ha rilevato di nuovo la presenza del virus.
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Cos’è il Paxlovid e come funziona

Il Paxlovid è la “pillola anti Covid” di Pfizer e si basa su due principi attivi: l’inibitore della proteasi nirmatrelvir, sviluppato per bloccare la proteasi principale del coronavirus SARS-CoV-2; e l’inibitore di un enzima epatico (il CYP3A) chiamato ritonavir, che potenzia l’azione dell’inibitore della proteasi. L’azione sinergica di questi farmaci, in parole semplici, blocca la replicazione del patogeno pandemico con l’obiettivo di neutralizzarlo. Il trattamento approvato anche dall’Agenzia Europea per i Medicinali (EMA) e dall’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) si basa su un ciclo di cinque giorni e può essere prescritto ai pazienti con COVID lieve o moderata con età superiore ai 12 anni, non ricoverati in ospedale (per l’infezione) e che hanno un rischio significativo di sviluppare la forma grave della malattia. Fra essi rientrano pazienti anziani, soggetti immunodepressi, affetti da obesità e / o altre comorbilità associate all’esito infausto.
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Cos’è l’effetto rebound

Dall’approvazione del Paxlovid, i medici si sono accorti del controverso “effetto rimbalzo”, cioè di un ritorno alla positività del paziente dopo un periodo di negativizzazione. Lo scorso 24 maggio i CDC statunitensi hanno pubblicato un avviso di allerta sanitaria allo scopo di informare gli operatori sanitari, i dipartimenti di sanità pubblica e i singoli cittadini di questa eventualità. I CDC sottolineano che il rebound si verifica tra i 2 e gli 8 giorni dopo la prima negativizzazione. Sebbene le conseguenze della reinfezione solitamente non siano gravi, il soggetto dovrà nuovamente sottoporsi alle regole di isolamento fino alla nuova negativizzazione.
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Da che cosa è provocato

Per farla breve, durante il trattamento il farmaco può abbattere i livelli di virus nel paziente fino a non renderlo più rilevabile dal tampone, ma se una parte del patogeno sopravvive al ciclo di e continua a replicarsi, ecco che può “rispuntare” e tornare a essere rilevabile da un tampone oro-rinofaringeo. Si tratta comunque di un flebile riacutizzarsi dell’infezione, dato che, in base ai dati attuali, quella legata al rebound è comunque destinata comunque a sparire nel giro di qualche giorno. La conseguenza fastidiosa è quella di doversi rifare la quarantena.
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La comunità scientifica si interroga

Il dottor Paul G. Auwaerter, direttore clinico della divisione di Malattie infettive presso la Scuola di Medicina della Johns Hopkins University, ha paragonato l’assunzione del farmaco allo “spostare i pali della porta” nel corso di un’infezione, una metafora per dire che il Paxlovid sopprime il virus, ma può non eliminarlo del tutto. Proprio per questo molti esperti si stanno domandando se non possa essere utile allungare il trattamento con Paxlovid, aumentando i giorni della terapia.

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