di Gianluigi Paragone.
Nel giro di poche ore la Banca Centrale Europea ha dimostrato la propria scarsa caratura con due dichiarazioni che fanno a cazzotti. La prima – per bocca di Fabio Panetta, componente italiano nel consiglio esecutivo – è un allarme: entro la fine dell’estate al più tardi all’inizio dell’autunno, l’eurozona rischia di ritrovarsi con un tasso di disoccupazione a doppia cifra. Si parla di quasi 5 milioni di nuovi disoccupati da qui alla fine del terzo trimestre; sempre che non arrivi una nuova ondata di Covid. Tra gli Stati più esposti a questo rischio c’è l’Italia. Per molti analisti la previsione sarebbe persino non delle più nere, nel senso che il dato potrebbe peggiorare.
Prima di Panetta, aveva parlato il vicepresidente della Bce Luis De Guindos in una intervista alla Stampa attraverso la quale si invitava il governo italiano a rimettere i conti in ordine una volta finita la pandemia. “Il principale antidoto non possono essere le politiche monetarie ma l’azione di riforme e di bilancio dei governi.” In poche parole siamo sempre alla solita litania dei compiti a casa. Il tema della ristrutturazione del debito torna centrale come ricetta della Troika, negli stessi contenuti di sempre. E quali sono le riforme da fare? Le medesime, quelle che alla fine colpiranno una volta di più il ceto medio e il ceto medio basso: piccoli imprenditori, commercianti, partite iva, professionisti e lavoratori, famiglie.
Il copione non cambia. Cambia solo lo scenario sul quale interviene la solita “prescrizione medica” e cioè quel meno 13 di pil (sempre che non peggiori) mai registrato finora.
Le due dichiarazioni, come dicevo prima, fanno a cazzotti e non è difficile da capirlo. Se la crisi inciderà nella carne viva del Paese con crisi aziendali, licenziamenti, disoccupazioni e spesso con relative esposizioni bancarie o debitorie in generale, non si può pensare di chiedere allo stesso Paese di “mettere i conti in ordine”. A maggior ragione se la paura di una ricaduta è nel novero delle opzioni nefaste. Eppure le parole del numero due della Lagarde non sono isolate, come dimostra la fretta del governo italiano per bocca del ministro Gualtieri a rassicurare i mercati circa un piano di rientro dal debito spalmato sui prossimi dieci anni!
Non credo che sia un mistero pensare che questo genere di impostazione sia stato recentemente affrontato e discusso nel corso della kermesse a porte chiuse in Villa Pamphili, alla quale presero parte proprio i rappresentanti della Troika (Fondo Monetario Internazione, Bce e Commissione Ue) nella giornata di esordio, come a enunciare la cornice entro la quale si dovrà muovere il governo nella ripartenza post Covid. Aggiungo inoltre che la ostinazione fanatica a chiedere la ristrutturazione del debito richiama esattamente i malefici del dibattito ormai estenuante sul Meccanismo europeo di strozzinaggio (il Mes), le cui istruzioni per l’uso – al netto delle fandonie raccontate per anestetizzare il dibattito – riportano all’aggiustamento dei conti.
Se questo è l’aiuto sostanzialmente diverso che l’Europa intende fornire stiamo freschi. Sarebbe come se il bagnino si avvicinasse al natante in difficoltà e invece di caricarlo sul pattino di Salvataggio offrisse lezioni di nuoto o consigli per non affogare! Di fronte a una contrazione di pil come quella che si annuncia entro la fine dell’anno, non ha senso pensare a come rientrare dai debiti per non agitare i mercati: i cittadini e l’economia reale vengono prima delle preoccupazioni d’ispirazione germanica sul rientro dal debito. Affermare che l’emergenza è eccezionale e poi affrontarla con le parole ordinarie dell’eurolessico è politicamente scelerato. Le recenti crisi hanno dimostrato che chi finisce negli abissi non è il mondo finanziario ma il mondo reale. La distanza tra il club dei super-ricchi e il resto del mondo si allarga proprio nelle crisi, favorendo chi specula sui mercati finanziari.
Non solo. Persino nelle dinamiche delle composizioni sociali più “normali” il lockdown e la crisi post Covid hanno allargato la forbice tra lavoratori garantiti e pensionati (che non hanno perso reddito) e la nutrita platea di precari, partite iva ed esercenti (che invece stanno intaccando le proprie riserve e chiedendo prestiti), accentuando così le diseguaglianze. Gli anni delle recenti crisi hanno visto l’indebitamento privato del ceto medio non garantito accrescere pericolosamente, proprio perché lo Stato ha dovuto compiere scelte di target. Questa fragilità esporrà non solo il governo ma l’Italia tutta ad una pericolosa deriva di inquietudine sociale, il cui sbocco è imprevedibile.
Se la Bce o l’Europa pensano di imbrigliare ulteriormente le scelte politiche e se il governo pensa di assecondarne le linee guida al fine di ottenere nuovi prestiti, questa differenziazione ingraviderà un figlio maledetto: quello dell’odio sociale. Altro che miracolo europeo.