La situazione di crisi economica che sta coinvolgendo tutta Italia si ripercuote, inevitabilmente, anche su Tfr e il Tfs che i dipendenti pubblici andranno a percepire una volta cessato il rapporto di lavoro. Il caro prezzi e l’aumento dei tassi di interesse cambiano le regole del gioco, e con esse cambiano anche quelle con cui il Tfr (Trattamento di fine rapporto) o il Tfs (Trattamento di fine servizio) vengono liquidati. Una vera e propria stangata quella in arrivo, che affonda le sue radici nel 2011, quando la crisi dello Spread salì alle stelle e venne chiesto ai dipendenti pubblici di “fare sacrifici”.
Il regime di austerità imposto dall’Europa germanocentrica aveva chiesto un giro di vite anche sull’erogazione delle liquidazioni, stabilendo che quest’ultime venissero rinviate di due anni, che poi son diventati cinque nel caso in cui un dipendente anticipa il pensionamento avvalendosi degli scivoli. Ma la situazione è diversa rispetto a undici anni fa. Oggi si aggiunge un ulteriore elemento che impone ai dipendenti pubblici di immolarsi: l’inflazione.
Lo Stato costringe i dipendenti a pagarsi l’anticipo
Riportiamo un esempio pratico illustrato dal sito Forzeitaliane.it: chi va in pensione a 67 anni, riceve la prima rata, fino a 50 mila euro, dopo 12 mesi dal pensionamento. La seconda rata dopo altri 12 mesi. Se la liquidazione supera i 100 mila euro allora occorre attendere un altro anno. Ebbene, l’Associazione bancaria italiana (Abi) ed il governo hanno sottoscritto una convenzione, rinnovata qualche giorno fa per altri due anni, che permette di ottenere un prestito fino a 45 mila euro a un tasso dello 0,40%, più il cosiddetto rendistato, chiedendo di fatto l’anticipo del proprio Tfr o Tfs al sistema bancario. Peccato che il rendistato non convenga più visto il notevole rialzo dei tassi di interesse. Finché i tassi si sono mantenuti a zero o sottozero, l’anticipo poteva anche risultare conveniente, ma ora che i tassi sono schizzati in alto, anche il rendistato è salito, perdendo il suo valore di agevolazione. In sostanza, oggi l’anticipo bancario può arrivare a costare fino al 2% a seconda delle tempistiche della richiesta. Il fatto stesso che i dipendenti debbano ricorrere ad un prestito oneroso per ottenere dei soldi che di fatto sono loro, è già di per sé assurdo.
Il peso dell’inflazione sulla liquidazione
Va ancora peggio lasciando i propri soldi all’Inps, attendendo la propria liquidazione per due o tre anni. I soldi che si andrebbero a percepire sarebbero svalutati del 15% o del 20% a seconda dell’andamento del caro-vita, che, come abbiamo visto, è, ad oggi, dell’8%. Dunque, quanto c’è da rimetterci con l’inflazione? Dopo la crisi dello spread nel 2011, la situazione è rimasta stabile negli anni. All’epoca, i dipendenti pubblici hanno ricevuto il loro Tfr e il loro Tfs dopo due anni dal pensionamento, ma senza rimetterci. Ora non è più così. Con l’inflazione all’8%, i dipendenti pubblici subiranno una penalizzazione. Come riporta PAMagazine, se un dipendente pubblico andasse in pensione quest’anno avendo maturato 100mila euro di Tfr o di Tfs, supponendo nel migliore dei casi che ricevesse la liquidazione tra due anni, è come se ottenesse 86 mila euro con un’inflazione all’8 per cento annuo.
La Corte Costituzionale rimane inascoltata
La questione del pagamento ritardato del Tfr-Tfs da parte dello Stato è finita davanti alla Corte costituzionale. Nella sentenza n. 159 del 2019 pronunciata dalla Corte costituzionale, i giudici avevano chiesto al Parlamento ed al governo di rivedere la disciplina con urgenza e liquidare immediatamente il Tfr e il Tfs almeno ai lavoratori che avessero raggiunto i 67 anni di età, precisando che il pagamento ritardato della liquidazione è ammissibile solo se il dipendente ha utilizzato uno scivolo per anticipare la pensione. Un’istanza purtroppo rimasta inascoltata.
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