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“Privatizzazioni imposte per fare cassa ed entrare nell’Euro”. E l’Italia rimase senza Rete

Pubblicato il 31/08/2020 11:23

La tragica esperienza dell’epidemia di Covid-19, tra le altre cose, in Italia ha fotografato anche un altro problema atavico del nostro Paese: la fragilità e l’arretratezza della nostra infrastruttura di rete telefonica (e quindi di internet) in rapporto al resto d’Europa. Lo sanno bene gli studenti e gli insegnanti, lo sanno bene i lavoratori che da un giorno all’altro si sono dovuti improvvisare lo smart working. Forse è anche per questo che, passato l’uragano, uno dei dossier principali è tornato ad essere quello dello scorporo della rete telefonica, di cui si parla da almeno 15 anni e che per tutto questo periodo era rimasto una semplice chimera. Vedremo ora quali saranno le conseguenze concrete dell’ipotesi di accordo. Ma, più che dell’accordo in sé, è interessante fare un passo indietro e capire cosa c’è all’origine di questo peccato che ha portato l’Italia a essere uno dei Paesi più arretrati, dove grafici e statistiche fotografano un Paese in cui il Pil è più alto proprio nelle zone in cui la rete internet riesce ad arrivare come Dio comanda.

Partiamo da un assunto fondamentale: le reti devono essere pubbliche, siano esse autostrade o reti digitali. Ma perché in Italia è andata diversamente? Adesso che infuria il dibattito fa ridere che anche Repubblica, e una firma pregevole come quella di Sergio Rizzo, escono allo scoperto e ammettono che le privatizzazioni furono fatte per fare cassa ed entrare nell’Euro. Esatto, è proprio questo il tema. Un altro dei grandi errori di aderire alla moneta unica. Un altro danno dai costi economici e sociali inimmaginabili. Scrive Rizzo: “Digerire le scorie di quella privatizzazione così sciatta e avventata, che pure agevolò l’ingresso dell’Italia nell’euro, non sarà affatto facile. Esserne consapevoli eviterà almeno altre delusioni”. Parole vere, dure, e che forse arrivano un po’ troppo in ritardo?

Aggiunge Rizzo nella sua ricostruzione: “Il peccato originale è quello della privatizzazione di Telecom Italia, quando insieme al gestore del servizio telefonico (allora di fatto l’unico se si eccettua la matricola Omnitel) venne ceduta ai privati anche l’infrastruttura. La rete era stata già ampiamente pagata dagli utenti con
le bollette, e il passaggio ai privati avrebbe garantito loro una enorme rendita di posizione. Non fosse altro perché gli utenti avrebbero continuato a pagare il canone. E se la rete faticava a tenere il passo della prodigiosa innovazione tecnologica in atto, la società non faticava a tenere il passo della politica: se è vero che a ogni mutamento degli scenari politici cambiavano anche gli azionisti”.

Aggiunge Rizzo: “La più grande compagnia telefonica nazionale proprietaria di una rete strategica, il cui requisito principale doveva essere un azionariato stabile, ha sperimentato invece per anni il massimo disordine proprietario possibile. Dietro la parolina magica, “mercato”, non ci siamo fatti mancare decisamente nulla. All’epoca della privatizzazione si levarono poche e flebili voci contro la cessione della rete. Che vennero subito soffocate. Il governo italiano puntava all’ingresso nella moneta unica e la privatizzazione di Telecom Italia insieme alla sua rete avrebbe garantito un incasso rilevante, oltre a dare un segnale forte al mercato. Le conseguenze a lungo termine non furono evidentemente previste”.

Bene che Rizzo metta oggi nero su bianco questa verità indiscutibile. E ci si arrabbia ancora di più se si pensa allo scotto che stanno pagando maggiormente le aree interne dell’Italia, ancora più lontane, ancora più arretrate a causa delle distanze fisiche, geografiche e di Rete, appunto. Una rete affidabile e veloce risolverebbe molti problemi, farebbe da volano per molte realtà, frenerebbe addirittura lo spopolamento e l’emigrazione. Intanto, a Roma si discute ancora sul da farsi. E mentre il governo discute, ricordiamo che Tim fu privatizzata dal primo governo di Romano Prodi, per poi finire, dopo una lunga serie di peripezie, sotto il controllo del gruppo francese Vivendi. Un colpo di genio strategico.

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