
A Genova lo conoscevano tutti. Non per le passerelle o per i selfie, ma per le battaglie che portava avanti da anni, sempre con la stessa divisa addosso: quella dell’impegno, della giustizia, dell’inclusione. Non era un politico, non voleva esserlo. Era un cittadino. Ma uno di quelli rari, di quelli che non si accontentano di guardare il mondo passare, di quelli che, pur senza cariche, spostano montagne (inclusione scolastica, spiagge, cure, invalidità civili, barriere architettoniche).
Aveva parlato con tutto l’arco costituzionale al punto di ricever il soprannome “cacciatore di politici“, persino con un Papa ormai defunto, e sempre per una sola causa: i più fragili. Bambini disabili, malati rari, adolescenti afflitti da disturbi alimentari, famiglie dimenticate dalle istituzioni. A loro dava voce, anima, tempo, senza chiedere nulla in cambio.
La politica lo temeva, perché diceva la verità. Una verità semplice quanto feroce: più lo Stato, le Regioni e i Comuni fanno un passo indietro, più le associazioni devono correre per coprire i buchi, ma senza fondi, tenute a galla da sovvenzioni politiche che diventano catene. Ha denunciato truffe, come quelle dei titoli di sostegno scolastico falsi. Ha vinto contro la propria Regione in procura contabile. Ma nessuna medaglia, nessuna onorificenza. Solo silenzio.
È apparso in televisione: Report, Presa Diretta, Striscia la Notizia, lo stato delle cose. Sempre per denunciare, sempre per costruire. Poi arrivarono le elezioni comunali di Genova. E lui, come sempre, non si candidò , aveva altre priorità una bimba malata e anziani nei pronto soccorsi. Chiese solo un incontro: voleva un contratto con la città. Un impegno scritto per tutelare i fragili, un piano condiviso. Ma i partiti erano chiusi negli uffici, a fare e disfare poltrone come in un gioco di società chiamato “Fantapolitica”.
Girava con una maglietta semplice, con due frasi potenti: “Genova inclusiva” e “Nessuno deve restare indietro”. Quelle parole finirono nei programmi elettorali, usate sia da chi perse sia da chi vinse. Nessuno però le capì davvero. O forse nessuno voleva capirle.
Moderò il primo incontro politico tra i candidati. Lì, a microfoni accesi, lanciò allarmi su cosa sarebbe accaduto dopo le elezioni. Ma nessuno lo ascoltò. E infatti, meno di un mese dopo, la giunta era fatta mentre la citta era in stand by. E c’era la sorpresa: un’assessora mai candidata, piazzata lì solo per giochi di partito, passata da una sigla all’altra come si cambia maglietta. Aveva già perso malamente alle Europee, eppure eccola lì, seduta in giunta.
Un’altra assessora, che aveva governato con chi perse, si ritrovò di nuovo in carica. Nessun mandato elettorale, ma tante necessità di equilibri politici da rispettare.
Allora la domanda si fece inevitabile: che differenza c’era tra chi aveva perso e chi aveva vinto? Cambiavano i volti, ma la narrazione restava la stessa, prima le poltrone e poi forse i cittadini. E lui, il cittadino invisibile, era rimasto fuori impossibilitato a tutelare i fragili se non sempre fuori dal palazzo faticando. Non per mancanza di merito. Ma perché era scomodo. Non si lasciava comprare. Parlava troppo chiaro. E non lasciava politicizzare le storie dei bambini e delle bambine di cui si occupava.
I palazzi del potere avevano chiuso le porte. Dentro, seduti comodi, c’erano i non eletti, i riciclati, i portatori sani di equilibri. Fuori, con la sua maglietta e la sua voce limpida, c’era chi davvero voleva cambiare le cose.
Ma una cosa è certa: la sua storia non è finita. Perché ogni volta che qualcuno ripeterà quelle parole – “Genova inclusiva”, “nessuno deve restare indietro” – parlerà di lui, anche senza nominarlo. E la verità, prima o poi, bussa. Anche ai palazzi chiusi.