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Facilitare i licenziamenti favorisce l’occupazione? Ovviamente no!

Pubblicato il 12/08/2020 18:50

di Savino Balzano.

Purtroppo siamo stati facili profeti: lo abbiamo detto e ripetuto e ormai siamo alle porte di quello che si preannuncia come il più duro attacco alla classe lavoratrice del nostro Paese. Pagheranno i lavoratori, pagheranno caro, e pagheranno i piccoli e medi imprenditori, il fiore all’occhiello dell’economia italiana.

Non esiste alcuna correlazione tra l’erosione dei diritti dei lavoratori e la creazione di nuova occupazione: nessuna. Nessun dato conforta l’idea che comprimendo i diritti delle persone sui luoghi di lavoro si possa creare nuova occupazione: chi dice il contrario mente, sapendo di mentire, e non fa altro che alimentare una squallida propaganda di regime.

Molte volte ce lo hanno raccontato che flessibilizzando (precarizzando) il mercato del lavoro ci sarebbero state nuove opportunità per tutti: ce lo ripeteva Monti e poi lo fece anche Renzi, che miliardi di euro erano fermi al confine, pronti ad essere investiti in Italia se solo avessimo liberalizzato il licenziamento illegittimo, annullando gli effetti dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori. Li avete visti voi questi miliardi?

Alcune sgasate le abbiamo ravvisate, patetici fuochi di paglia, ma erano dovute ai miliardi stanziati come incentivi alle nuove assunzioni: esauriti gli incentivi, finite le assunzioni, peraltro mandando a casa chi intanto era entrato in azienda. L’effetto di questi incentivi? Semplice: trasferire tante, tantissime risorse pubbliche dei contribuenti nelle tasche dei grandi gruppi industriali multinazionali (alla piccola e media imprenditoria poca roba), che avrebbero goduto di manodopera a minor costo, ricattabile dalla ormai totale assenza dei principali diritti individuali (e conseguentemente politici) in capo ai lavoratori.

E la stessa cosa accade in questi giorni col dibattito che ruota attorno al blocco dei licenziamenti, solo che stavolta si sono superati.

Se fino ad oggi abbiamo assistito alla farsa per cui ridurre i diritti servirebbe a creare nuovi posti di lavoro, qui si arriva persino a sostenere che licenziare servirebbe a creare nuova occupazione: addirittura sul piano logico si fatica enormemente a seguire il discorso.

Secondo Confindustria il blocco dei licenziamenti «impedisce ristrutturazioni d’impresa, investimenti e di conseguenza nuova occupazione»: per questi signori non esiste alcuna forma di ristrutturazione, riorganizzazione d’impresa e investimento alternativa al licenziamento delle persone. Tale è la considerazione che la rappresentanza datoriale ha del mondo del lavoro, ignorando il fatto che siano proprio le persone a costituire il grande valore aggiunto della piccola e media imprenditoria italiana: peccato che, come abbiamo già fatto notare, non è di questa imprenditoria che Confindustria rappresenta gli interessi.

Anche tra gli “intellettuali” si sono succedute dichiarazioni davvero strabilianti e il 3 agosto scorso, Angelo Panebianco, parecchio incazzato con quelli che definisce «keynesiani de’ noantri» (in mezzo ci siamo anche noi, ma non siamo permalosi), oltre a rispolverare la bontà della privatizzazione dell’acqua, arriva a sostenere che le fabbriche in crisi non vadano assolutamente salvate: «chiudendo quella fabbrica, si liberano risorse che genereranno (in breve tempo ma non immediatamente) nuova ricchezza e nuova occupazione. Se invece la fabbrica improduttiva viene salvata, i posti di lavoro si conservano ma i costi del salvataggio ricadono sui contribuenti, c’è solo ricchezza dissipata, non creata. Salvataggio: pochi vantaggi ma immediati. I costi, assai pesanti, sono al momento invisibili. Chiusura: pochi costi ma immediati. I vantaggi, assai grandi (per tutti, lavoratori compresi) sono posposti nel tempo». Peccato che questo fine “intellettuale” dimentica di considerare il fatto che andiamo incontro ad una fase catastrofica della storia del nostro Paese, nella quale a rischiare di fallire saranno migliaia e migliaia di aziende: come la gestiremo questa gigantesca bolla sociale? Con la capacità del mercato di riorganizzarsi e di riassorbire i cittadini che intanto moriranno di fame con le loro famiglie? Siate seri!

Che poi queste sciocchezze non le sostengono più nemmeno i più estremisti tra i liberisti. Persino Calenda è arrivato ad ammetterlo (già nell’ottobre 2019): «i liberaldemocra­tici, i liberisti ideologici, rispondevano […] con una delle più grandi cazzate che si siano sentite nella storia, cioè che non si devono salvaguardare i po­sti di lavoro, ma si deve salvaguardare il lavoro. La cosa sarebbe in questi termini: “caro operaio […], tu perdi il posto di lavoro, c’hai cinquant’anni, io non te lo salvo il tuo posto di lavoro però, tenendo le tasse basse si svilupperà per esempio l’economia delle app, dove tu potrai andare a lavorare”. Un operaio che fabbrica compressori va a lavorare in questa roba qua. Queste cose noi le abbiamo scritte, io le ho sostenute, e noi liberali le abbiamo scritte sui giornali per trent’anni! E poi vi chiedete perché quelli votano i sovranisti? Ma viene voglia a me di votare i sovranisti! […] E se questa roba di parlare dei fenomeni complessi – come innovazione tecnolo­gica e globalizzazione, come se fossero interamente positivi perché non hanno mai un pezzo che deve essere gestito perché crea dei disagi – non ci passa, veniamo spazzati via. […] Io ho per trent’anni ripe­tuto tutte le banalità che si sono ripetute nel libe­rismo ideologico. […] Quando Giavazzi e Alesina scrivevano sul Corriere “non salvaguardare i posti di lavoro, ma salvaguardare il lavoro”, io dicevo “oh che ficata!”, poi […] ho capito che era una gran cac­chiata».

Eppure le uscite continuano a susseguirsi. Non ce lo siamo dimenticato quello che ha affermato il 17 luglio scorso il Viceministro 5 Stelle Laura Castelli: «le persone hanno cambiato modo di vivere, e bisogna aiutare gli imprenditori dei nuovi business che sono nati al momento. Certo, se una persona decide di non andare più al ristorante, bisogna aiutare l’imprenditore a fare un’altra attività e non perdere la sua occupazione. Va sostenuto anche nella sua creatività, magari ha visto un nuovo business». In poche parole, se il piccolo imprenditore non riesce a portare avanti la propria attività, poco male: con la creatività troverà il modo di sbarcare il lunario. E se fossero tanti i ristoratori a finire col culo a terra, meglio, verrebbe da dire: ulteriori energie e creatività, nuova occupazione e opportunità di crescita, una goduria pazzesca, roba da non vederne l’ora. Ditemi voi se ridere o piangere.

E mica è finita qui. Qualche giorno fa la perla del Sottosegretario al Lavoro, la PD Francesca Puglisi, ospite in una trasmissione televisiva di La7, che fa notare come il blocco dei licenziamenti rischierebbe di condurre ad una situazione per cui i lavoratori potrebbero non essere più pagati dall’azienda, a differenza del licenziamento che garantirebbe quantomeno l’indennità di disoccupazione. Questa è poesia pura: prima di tutto la retorica dell’efficienza del liberismo e del mercato qui crolla, dal momento che la NASPI la paghiamo noi contribuenti, ma, soprattutto: che ambizione esprime un Governo che in materia di occupazione e rilancio dell’economia punta sull’indennità di disoccupazione? E dire che questi dovrebbero attirare nuovi investimenti, guidare la grande ripresa, salvare il Paese dal pantano che lo attende. Perché piuttosto non investire queste risorse destinando finalmente qualcosa alla piccola e media imprenditoria soffocata dai debiti maturati durante i mesi di chiusura? Con tali risorse potrebbero certamente provare a sopravvivere, continuando naturalmente a retribuire i lavoratori. Ricordiamo che tra i debiti maturati adesso ci sono anche quelli relativi ai prestiti del decreto “liquidità”: l’unico “aiuto” che il Governo Conte è riuscito a partorire per le aziende italiane: ci si domanda seriamente se sia interesse di questo esecutivo, in concerto con qualche lobby europea, salvare e aiutare queste realtà. Brividi e capelli bianchi.

Qualcuno più scaltro (di certo nessuno degli interlocutori appena citati) potrebbe obiettarmi: se l’erosione dei diritti dei lavoratori non ha alcun legame (diretto) con l’andamento del mercato del lavoro, non generando peraltro un’esplosione delle assunzioni, allora specularmente non comporta una impennata nei licenziamenti e storicamente è stato così (eccezion fatta per i licenziamenti disciplinari: quelli aumentano perché sono utili a far fuori i lavoratori scomodi e recalcitranti dinanzi allo sfruttamento). Giusto, giustissimo, ma infatti qui la sfida non è tra “occupazione si” e “occupazione no”: ai grandi gruppi internazionali la manodopera serve eccome. Qui, evidentemente, la sfida è attorno al modello di occupazione: lavoratori o schiavi. Corrodendo i diritti individuali dei lavoratori, ponendoli in un meschino e prostrato stato di ricattabilità, sarà assai più semplice erodere drammaticamente i loro salari a vantaggio delle grandi multinazionali.

Si specificava legame “diretto”: questo perché indirettamente effetti complessivi sul mercato del lavoro e sull’economia esistono eccome. Erodendo i salari, infatti, si riduce enormemente la ricchezza spendibile nell’economia nazionale (non fosse altro perché i lavoratori sono anche consumatori) e a risentirne sarà proprio la piccola e media imprenditoria italiana. Ad avvantaggiarsene sono le grandi multinazionali che non hanno alcun interesse a favorire la domanda interna. Crollando il tessuto produttivo del “Made in Italy”, evidentemente, le ricadute sul piano occupazionale ci saranno eccome: in peggio.

Il blocco dei licenziamenti pare reggere, precario più che mai, e probabilmente durerà ancora qualche settimana, ma questo non basta a scongiurare il peggio che ci minaccia: non sappiamo più come ripeterlo che servono strumenti ampi e incisivi per sostenere la domanda interna. Molte piccole e medie imprese sono in terribile agonia e urge una serie di misure a sostegno delle famiglie e delle imprese: peccato, però, che tali misure ancora una volta non siano compatibili con i soffocanti parametri europei, che soffocanti lo saranno ancora molto di più nel prossimo futuro, quando saranno dispiegate tutte le richieste che all’Italia verranno avanzate in cambio dell’elemosina del Recovery Found. Il Paese rinuncia alla possibilità di scrivere il proprio destino, svende la propria sovranità nazionale e la propria vocazione democratica, mentre i complici di Bruxelles gongolano felici.

Sono lontani, lontanissimi, i tempi in cui il Movimento 5 Stelle si affannava a voler archiviare il Jobs Act e ancora più lontani quelli in cui Luigi Di Maio, oggi il Ministro degli Esteri che tra un congiuntivo sbagliato e l’altro colloca Pinochet in Venezuela, affermava in televisione di voler ripristinare l’art. 18. Questi sono i tempi dell’alleanza col PD e con Italia Viva: si punta a una nuova politica in materia di economia e di lavoro, una politica che ha dimostrato in passato maggior sensibilità e “familiarità” con le Banche e la finanza, piuttosto che con i lavoratori e i piccoli e medi imprenditori; si guarda a una politica che rispecchi di più le visioni dell’antico rivale, oggi socio di Governo, Matteo Renzi, padre del Jobs Act, del demansionamento dei lavoratori, del controllo a distanza sui dipendenti e dell’abolizione definitiva della reintegra in caso di licenziamento illegittimo.

Mala tempora currunt.