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Da Monti e Renzi ai giorni nostri, tutti quelli che hanno provato a rivoluzionare la pubblica amministrazione (senza riuscirci)

Pubblicato il 29/01/2020 11:44

Era il febbraio 2014 quando un Matteo Renzi fresco di ingresso a Palazzo Chigi prometteva di sbloccare i debiti della pubblica amministrazione. Un concetto ribadito anche nei mesi successivi, quando la scadenza era stata fissata al 21 settembre dello stesso anno, e accompagnato dalla promessa dell’introduzione della fatturazione elettronica per rendere immediato il pagamento, così da snellire le procedure. Sei anno dopo, l’Italia è rimasta al punto di partenza. Con l’aggravante di una condanna da parte della Corte di Giustizia Ue che ha sancito il nostro venir meno agli obblighi della direttiva 2011-2017.

Da Monti e Renzi ai giorni nostri, tutti quelli che hanno provato a rivoluzionare la pubblica amministrazione (senza riuscirci)

L’Italia “non assicura che le sue pubbliche amministrazioni rispettino effettivamente i termini di pagamento stabiliti”. Questa la motivazione dietro una condanna che riguarda i tempi di pagamento registrati tra settembre 2014 e dicembre 2016, quando al governo c’era l’ex rottamatore, oggi leader di Italia Viva, che prometteva accelerate imminenti perché, a suo dire, il Paese era alle strette. Il tutto mentre Antonio Tajani, in procinto di diventare vicepresidente della Commissione Ue, anticipava l’avvio della procedura di infrazione nei confronti del Bel Paese alla luce di diverse denunce di violazione della direttiva sui tempi di pagamento presentate da diverse associazioni di categoria.

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Nel famoso decreto che introduceva il bonus di 80 euro, Renzi aveva messo in conto 9,3 miliardi da versare agli enti debitori in modo che pagassero il dovuto alle imprese, rivendicando così di fronte a Bruxelles di aver affrontato in maniera celere ed efficiente per affrontare l’emergenza. Un percorso che era iniziato in realtà prima, con Mario Monti che aveva stanziato 40 miliardi per i pagamenti ed Enrico Letta che, prima della pugnalata dello stesso Renzi, ne aveva aggiunti 7. Tutto bello, tutto giusto. Ma la Commissione, dopo averci concesso più tempo, bocciava l’Italia all’esame finale del febbraio 2017, costringendo il governo ad ammettere i limiti della propria azione.

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Dopo aver verificato che i tempi di pagamento del nostro Paese erano superiori agli standard, la Commissione aveva così presentato alla Corte di giustizia un ricorso per violazione. E oggi ha ottenuto la condanna dell’Italia a pagare le spese di giudizio. Secondo la fonte di Bruxelles, la società European Payment Report di Intrum, i tempi di pagamento nel 2018 erano ancora superiori ai 100 giorni e l’anno scorso si sono ridotti a 67 giorni. Un miglioramento notevole che però non basta per rispettare la direttiva Ue e resta ben superiore alla media dei 28, che è di 42 giorni. La Francia, per fare un confronto, paga in 48 giorni. In Germania per essere pagati ne bastano 27.

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