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“Condannata l’azienda!” Fu sospesa perché senza vaccino, ma ora i giudici fanno giustizia. La sentenza

Pubblicato il 29/11/2022 18:07

“Buone notizie!”, per dirla alla Burioni. Anche se questa volta il televirologo non sarebbe affatto contento della novella, suo malgrado. La storia di una donna, non vaccinata contro il Covid e di conseguenza sospesa dall’azienda, ha avuto un lieto fine. Il giudice questa volta le ha dato ragione, condannando l’impresa al pagamento di 2.500 euro, oltre alla corresponsione della retribuzioni non elargite durante il periodo di interruzione del rapporto di lavoro. Durante la pandemia, l’azienda aveva esteso l’obbligo vaccinale ai propri dipendenti all’interno del sistema delle pulizie dell’ospedale San Salvatore dell’Aquila, come anche all’obbligo di esibizione del Green Pass prima di prendere servizio. Questo ha “determinato la sospensione della lavoratrice, che immediatamente ha contestato tale comportamento”.
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Il giudice del lavoro dell’Aquila, Giulio Cruciani, dopo aver esaminato il ricorso della stessa Ugl, assistita dall’avvocato Luca Silvestri, ritenendo illegittima la sospensione, con sentenza 234/2022 ha sanzionato l’azienda al pagamento di 2.500 euro e della retribuzione. Secondo quanto riferisce l’Adnkronos, il giudice nella motivazione premette “che verrà valutata non la legittimità dell’obbligo vaccinale anti Sars-CoV-2, bensì la legittimità della sospensione dal lavoro per assenza della vaccinazione obbligatoria per alcune categorie di lavoratori o di una certa fascia di età, questo essendo il tema del decidere nel presente giudizio”. Inoltre, il giudice ha sottolineato che “deve respingersi con forza la tesi” dell’azienda “secondo la quale un lavoratore può̀ essere sospeso dal lavoro senza che il datore gli comunichi alcunché”.
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Dunque, le ragioni della donna sono basate prettamente sulla modalità procedurale utilizzata dall’azienda per escluderla dall’attività lavorativa. “E’ la stessa parte resistente che sostiene – afferma Cruciani – che in base al disposto dell’art. 4-ter, c. 3, dl. 44/21, l’atto di accertamento dell’inadempimento determina l’immediata sospensione dal diritto di svolgere l’attività lavorativa. Dunque, quantunque la sospensione sia l’effetto immediato del venire in essere di alcuni presupposti, questi devono essere accertati in un procedimento che culmina con un atto e questo ovviamente deve essere comunicato al lavoratore che così potrà̀ conoscere il motivo della sospensione, verificare se l’accertamento è esatto e in caso ritenga impugnarlo. Sotto tale profilo, dunque, la sospensione della lavoratrice è palesemente illegittima per difetto della relativa procedura: un atto ci deve essere e può̀ anche avere effetti retroattivi, ma deve dare conto dell’esistenza dei presupposti che giustificano tali effetti e deve essere comunicato all’interessato affinché̀ conosca il motivo della sospensione”.
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La parte successiva dell’ordinanza è di certo la più interessante, in quanto va a toccare alcuni temi molto cari a chi ha condotto e sta conducendo una battaglia contro la discriminazione di Stato. Il giudice ha sentenziato che “Ad una valutazione costituzionalmente orientata (e anche letterale) non vi è alcuna norma di legge – né potrebbe mai esservi anche per lo sbarramento costituzionale del divieto di discriminazione articolo 3 Costituzione – che imponga un obbligo vaccinale anti Sars-CoV-2 per prestare lavoro per determinate categorie di lavoratori o per lavoratori con una determinata fascia di età, ma solamente l’imposizione di un tale obbligo se e nei limiti in cui sia strumento di prevenzione dal contagio. Invero, si consideri che lo Stato italiano si fonda sul lavoro (art. 1 Cost.) e su questo si fonda non solo la dignità̀ professionale ma anche la dignità̀ personale dell’essere umano (limite invalicabile all’obbligatorietà del trattamento sanitario, quale il vaccino, di cui all’art. 32 Cost.) che vuole mantenersi con le proprie forze. Il reddito da lavoro costituisce per lo più il reddito di sussistenza, senza di esso si scivola nel degrado e nella dipendenza”. Una analisi che affonda dunque le sue radici nei principi della Carta Costituzionale.
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Ma non è tutto, poiché il giudice Cruciani ha voluto porre l’accento su un altro punto chiave: “Solo ad una lettura superficiale (e comunque non costituzionalmente orientata) gli art. 4, 4-bis e 4-ter, poi 4-quater e 4-quinquies dl. 44/21, per tutelare la salute pubblica, imporrebbero (per quanto qui rileva) l’obbligo vaccinale anti Sars-CoV-2 a certe categorie di lavoratori e ai lavoratori dai 50 anni in su. In realtà così non è perché́ il dato letterale delle norme oltre che la Costituzione devono orientare il giudice verso un’interpretazione che ancora l’obbligo vaccinale per certe categorie di lavoratori e i lavoratori ultracinquantenni alla sussistenza del presupposto della capacità preventiva dal contagio del vaccino. In effetti, la ragione evidente per la quale si impone che il lavoratore sia vaccinato è che questi nel luogo di lavoro non possa essere così fonte di rischio per i colleghi o per i terzi particolarmente esposti; poiché́ il lavoratore non vaccinato a differenza di quello vaccinato esporrebbe gli altri con i quali entra in contatto nei luoghi di lavoro al rischio di infezione Sars-CoV-2 i medesimi non debbono essere presenti nei luoghi di lavoro. Questo è il fondamento e, quindi, il limite di applicazione di tali norme già espresso chiaramente nelle stesse: secondo l’interpretazione letterale la vaccinazione obbligatoria è quella volta a prevenire l’infezione (si ripete lo dice la norma “prevenzione”, nel corpo e nella rubrica)”.
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Di più, “è un’interpretazione costituzionalmente imposta perché́ è il fondamento che solo potrebbe (ma come detto non si valuterà la più ampia questione della costituzionalità dell’obbligo vaccinale anti Sars- CoV-2) giustificare una discriminazione così rilevante. Tale fondamento non è presente nel caso in esame: i vaccinati, rebus sic stantibus, ossia con i farmaci oggi a disposizione della popolazione italiana, come i non vaccinati si infettano ed infettano gli altri. Non vi è alcuna evidenza scientifica che abbia dimostrato che il vaccinato, con i prodotti attualmente in commercio, non si contagi e non contagi a sua volta. La comune esperienza di tutti (personale, familiare, della cerchia di conoscenti) conferma il dato evidente che, allo stato, chi non si è vaccinato può infettarsi e infettare come può infettarsi e infettare chi ha ricevuto una dose, due dosi etc..
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La disamina continua e si chiude ribadendo un concetto del tutto logico, ma non così scontato da trovare nelle aule dei tribunali italiani. Una vera e propria gioia per gli occhi leggerle: “Evidenza scientifica e comune esperienza fanno assurgere tale dato nel contesto attuale – contagiosità dei vaccinati come dei non vaccinati – a fatto notorio ai sensi dell’art. 115, c.p.c.. Allora è evidente che venuto meno il presupposto per il quale alcuni lavoratori possono entrare nei luoghi di lavoro ed altri no, la sospensione della ricorrente, giustificata dal fatto che non sia vaccinata, è del tutto priva di fondamento. Per completezza si osserva che un eventuale atto amministrativo che imponesse una siffatta discriminazione, che per quanto detto non è prevista dalla norma primaria, sarebbe contra legem e andrebbe disapplicato. In conclusione, alla parte ricorrente (alla luce della riduzione della domanda, v.) deve essere pagata la retribuzione dalla sospensione all’effettivo ripristino della stessa”, oltre agli interessi e alla rivalutazione monetaria”. Una piccola grande vittoria per la parte ricorrente e per tutto il mondo dei non vaccinati discriminati sul posto di lavoro.

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