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I ristori degli altri: breve storia triste di una start-up

Pubblicato il 16/01/2021 21:19

di Pietro Salemi.

Voglio raccontarvi la breve storia (triste) di come l’impresa di cui sono socio-lavoratore, secondo l’Agenzia delle Entrate, non ha diritto ad alcun ristoro.

L’impresa in questione è un centro culturale che si caratterizza per la programmazione quotidiana di concerti ed eventi culturali ma che esercita, in via prevalente, l’attività di bar e ristorazione con la somministrazione di cibi e bevande (codice ATECO 56.30). L’impresa è stata costituita in forma societaria nel maggio del 2018 e, dopo aver terminato lunghi lavori di adeguamento degli spazi, ha iniziato le proprie attività e staccato il primo scontrino il 15 giugno del 2019. 

A marzo del 2020, l’arrivo della pandemia impone la sospensione di qualsivoglia attività e il CaMus (così si chiama il locale) riapre direttamente a metà settembre 2020 per poi richiudere a fine ottobre 2020 in conseguenza della seconda ondata. Ancora oggi il locale è completamente chiuso, non essendo la nostra attività (almeno quella eventistica e concertistica) consumabile a domicilio o da asporto.

Come molti sapranno, a fine ottobre 2020, con il decreto-legge n. 137/2020 (poi convertito con modificazioni dalla L. 18 dicembre 2020, n. 176) il governo vara i ristori settoriali per le attività economiche più colpite dalla seconda ondata.

È l’art. 1 a disciplinare il tema dei ristori per le attività economiche. Si riportano di seguito i criteri per l’accesso ai contributi in questione, acclarati ai commi 3 e 4:

«Il contributo a fondo perduto spetta a condizione che l’ammontare del fatturato e dei corrispettivi del mese di aprile 2020 sia inferiore ai due terzi dell’ammontare del fatturato e dei corrispettivi del mese di aprile 2019. Al fine di determinare correttamente i predetti importi, si fa riferimento alla data di effettuazione dell’operazione di cessione di beni o di prestazione dei servizi».

Quindi, il comma 3 individua un primo requisito di accesso, apparentemente ragionevole: l’aver registrato, nell’aprile 2020, una riduzione di fatturato pari almeno a 1⁄3 rispetto all’aprile 2019. La ratio evidente della norma è quella di garantire l’accesso al contributo a fondo perduto solo per quelle attività effettivamente penalizzate dall’avvento del COVID-19 e dalle conseguenti misure anti-contagio adottate dal governo. Specularmente, l’intento evidente è quello di escludere quelle imprese che non abbiano risentito della pandemia (o che addirittura se ne siano avvantaggiate). 

Purtroppo, secondo tale criterio il CaMus non potrebbe beneficiare del contributo, perché 0 (il fatturato di aprile 2020 – chiusura causa COVID) meno 0 (il fatturato di aprile 2019, mese nel quale non avevamo ancora avviato l’attività) fa 0. Nessuna perdita di fatturato quindi. 

Tuttavia, il comma 4 sembra finalizzato ad estendere la percezione del contributo anche a chi non aveva ancora aperto l’attività nell’aprile 2019, sancendo quanto segue:

«Il predetto contributo spetta anche in assenza dei requisiti di fatturato di cui al precedente comma ai soggetti riportati nell’Allegato 1 che hanno attivato la partita IVA a partire dal 1° gennaio 2019». 

Dalla lettura dell’articolo, sia io che i miei soci, ci sentivamo rassicurati: la nostra attività, pur costituita nel maggio 2018, era effettivamente attiva (come da visura camerale) solo dal 15 giugno 2019 (dunque, dopo il «1° gennaio 2019»). 

Qualche giorno fa la doccia fredda: istanza di accesso al contributo “Ristori” negata. Nello scarto della pratica da parte dell’Agenzia delle Entrate si legge: «L’istanza è stata scartata in quanto la partita IVA ha inizio attività precedente al 1/1/2019». 

Risulta, infatti, che nel gergo tecnico dell’Agenzia delle Entrate, cui è affidata l’erogazione dei ristori, l’inizio attività coincida con l’apertura della partita IVA, coincidente con la costituzione della persona giuridica societaria, non rilevando, invece, in alcun modo né la cd. “attivazione” della partita IVA presso la camera di commercio, né la data di prima fatturazione in entrata (nel nostro caso, appunto, il 15 giugno 2019). Pertanto, non rientriamo nel comma 4 e siamo esclusi da qualsivoglia ristoro.

Dunque, mettiamo in ordine i punti fondamentali. L’impresa di cui sono socio-lavoratore è stata iper-danneggiata dalla pandemia, come tutte (o quasi) le imprese aventi il medesimo codice ATECO: dall’avvento del COVID-19, il CaMus è stato aperto un solo mese e mezzo su dieci mesi di pandemia. 

Inoltre, eravamo, come tutte le start-up neonate, i soggetti più deboli sul mercato e con le spalle meno larghe. Complessivamente, infatti, dal 15 giugno 2019, data di apertura (e di primo scontrino), a oggi (15 gennaio 2021), sono trascorsi solo 19 mesi: di questi, 10 mesi e mezzo (9 prima del COVID e 1 e mezzo tra prima e seconda ondata) di apertura e altri 8 mesi e mezzo di chiusura causa COVID.

Per di più, l’unico mese e mezzo in cui abbiamo potuto lavorare durante la pandemia, lo abbiamo fatto con il freno a mano tirato: attenti a distanze di sicurezza, lavorando solo all’aperto, perdendo capienza per i concerti e gli eventi, impiegando alcuni di noi nel tracciamento continuo della clientela, affrontando maggiori costi per i dispositivi di sicurezza e le necessarie sanificazioni. Posso assicurare che non è stato facile, né economicamente vantaggioso.

Ora, di fronte a tutto ciò, secondo l’Agenzia delle Entrate (e, a quanto pare, secondo il legislatore), le giovani attività che versano nella nostra situazione non meritano alcun aiuto, neanche quel minimo forfettario che si è voluto destinare a chi, ​per data di inizio attività​, non aveva la possibilità di ottenere un ristoro parametrato al fatturato.

Certo, il nostro è un caso particolare, si potrebbe obiettare. Forse in buona fede, il governo non si è figurato tale ipotesi oppure l’intenzione era forse quella di interpretare in senso estensivo il concetto di “attivazione della partita IVA” per abbracciare il concetto (di mero buon senso) dell’effettivo inizio dell’attività d’impresa, come da visura camerale in cui si distingue tra un momento di costituzione dell’attività e un momento successivo in cui l’impresa diventa “attiva”.

In alternativa, si potevano evitare ambiguità (e ingiustizie) facendo riferimento alla prima fatturazione in entrata (“primo scontrino”). Peraltro, poiché il decreto ristori è datato fine ottobre 2020, mal si comprende e digerisce il perché non si sia assunto a parametro un intervallo di tempo più ampio su cui parametrare il calo di fatturato e l’impatto della pandemia sulle attività economiche: ad esempio, i 6 mesi che intercorrono tra marzo e settembre. Sarebbe stato questo un modo per salvare non solo la situazione delle start-up come la mia, ma anche la possibilità di accesso ai ristori di tutte quelle attività stagionali che solitamente fatturano tra maggio e settembre. 

Intenzionale o casuale che sia, la “svista” del governo è molto grave. Anzi, è incostituzionale. È, infatti, abbastanza palese il contrasto con l’art. 3 della Costituzione nella misura in cui la legge esclude dalla fruizione del contributo un pluralità di destinatari che avrebbero avuto diritto a percepirla, operando una discriminazione che non trova alcun ragionevole fondamento. Di fatti, se dalla disposizione dell’art. 1 comma 4 del decreto ristori, se ne dovesse ricavare la norma che ne trae l’Agenzia delle Entrate, si verificherebbe (come nei fatti si sta verificando) una paradossale situazione in cui vengono trattate in modo uguale, situazioni molto diverse: quella di chi non aveva ancora iniziato ad esercitare la propria attività, con quella di chi non possa dimostrare una perdita di fatturato perché ha continuato a lavorare abbastanza normalmente, senza risentire eccessivamente delle limitazioni. 

Il piccolo imprenditore, schiacciato dal tallone di ferro dell’ingiustizia, dovrebbe quini non arrendersi: ingaggiare un avvocato, pagare il contributo unificato, ricorrere, presentare istanze e arrivare, magari, fino alla Corte Costituzionale per vedersi riconoscere un ristoro da 4.000€, dopo anni di battaglie e spese legali. Chi lo fa?

Ecco, che l’ingiustizia si cristallizza in rassegnazione e sfiducia nelle istituzioni.

Nel frattempo, noi restiamo chiusi per tutelare la salute di tutti e, tra un governo e l’altro, sta per arrivare un nuovo provvedimento di ristori… per gli altri.