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Una bandiera per quale comunità?

Pubblicato il 18/05/2024 08:48

Ho appena ricevuto dall’editore le prime copie del mio ultimo libro “Maledetta Europa” e la provocazione del parlamentare della Lega nonché candidato alle europee, Claudio Borghi, calza a pennello. Che cosa ha detto Borghi, o meglio che cosa ha proposto? Togliere la bandiera europea tra le bandiere ufficiali da esporre nelle sedi istituzionali.


La questione che avanza l’economista leghista, che conosco dai tempi in cui conducevo trasmissioni in televisione e in radio, ha una sua validità che non si vuole vedere perché scombussolerebbe le “certezze” dei più. Tant’è che della provocazione siamo in pochi a coglierne il senso. Fosse stata una frase di Vannacci sui gay sarebbe partito il dibbbattito.


L’ho scritto nel mio recente saggio: l’Unione europea non ha alcuna comunità, non ha una identità, non ha nemmeno una vera legittimazione popolare. Pertanto la bandiera è poco più di un simbolo propagandistico, un feticcio vuoto e arido. Così come non ha senso la dicitura che vedo apposta sotto i cartelloni di benvenuto in diverse città: “Comune d’Europa”. L’Europa non esiste in quanto Stato o Nazione: che Comuni può avere? Esiste come aggregato di Stati che, per somma di trattati, decidono di elidere pezzi della propria sovranità e concederla all’Unione europea. Che è cosa ben diversa dell’Europa unita, per non dire degli Stati Uniti d’Europa che distano anni luce da Bruxelles.


La bandiera è un simbolo di una comunità nazionale, di una Patria: nel periodo del Covid ci siamo stretti attorno al Tricolore in una specie di “spiritualità nazionale”. Ho visto migliaia di bandiere italiane esposte ai balconi, non ho visto bandiere europee; ho visto i colori verde, bianco e rosso proiettati sui palazzi istituzionali e non solo; così come quei tre colori li ho visti sempre più al polso come legame identitario. Non c’è comunità nazionale senza i suoi simboli. La bandiera, come l’inno, è un simbolo. “Anche quella dell’Europa è un simbolo”, potrebbe ribattere qualcuno. Lo è esattamente come lo è ogni elemento griffato Ue: imposto dall’alto. Di popolare non c’è nulla. Nulla ha ricevuto il battesimo elettorale e l’unico “pezzo” dell’Unione europea per cui siamo chiamati a esprimerci è buono poco più per organizzare una partita di calcetto o un giro di burraco.


Il parlamento europeo è un pezzo della manifestazione attraverso cui l’Europa legifera. Di sicuro non è il più impattante. E il più importante. Non c’è mai stato alcun imprimatur dal basso: non sui trattati istitutivi (Maastricht e Lisbona in primis), non sull’euro; non sulla stessa adesione all’Unione europea. Almeno in Russia e in Cina la popolazione è coinvolta: mi potete dire che fa parte di una liturgia formale e non sostanziale, ma almeno l’apparenza la salvano. Da noi no.


Tra qualche settimana si vota e il dibattito rasenta lo stesso atteggiamento con cui la gente si sente “europea”. La bandiere o la moneta, le istituzioni o i leader: certi simboli identitari non sono nulla senza un battesimo dal basso. Pensare di poter sempre edificare a prescindere dai popoli è un peccato di presunzione (hybris) che l’Unione paga. Del resto questa “Cosa strana” per cui si spendono fiumi di parole, fuori dal nostro provincialismo non conta un tubo. E anche il salmo del Covid è finito in gloria. Un gloria molto italiano, molto burocratico. Solo ieri infatti quei numeri e quelle curve che per quattro anni – soprattutto i primi due – avevano angosciato gli italiani accompagnandoli in ogni edizione del telegiornale e dei talk coi bollettini della pandemia sono stati pensionati. Evviva, verrebbe da dire. Del resto ormai il Covid è passato di moda.


Eppure quante ombre sarebbero ancora da chiarire, se non fosse che tra inchieste, commissioni e ritardi l’impressione sia più quella di far passare il tempo che di far luce. Le notizie arrivano così, nella speranza di non suscitare grandi clamori: prima il ritiro del vaccino AstraZeneca dal mercato, ora il pensionamento dei bollettini.


A esser precisi dalla prossima settimana quei numeri e quelle sigle allora poco conosciute come l’Rt non avranno più una comunicazione settimanale ma si limiteranno a finire sul sito del ministero della Salute, dove si trovano anche altri dati sul Sars-CoV-2.
Quattro anni di annunci, dicevamo. Il primo lo lesse l’allora direttore dell’Inmi Spallanzani, Francesco Vaia, il quale dava notizie sulle condizioni della coppia cinese ricoverata in istituto e nelle settimane successive sui tanti assistiti dall’Irccs. Poi, con l’esplosione della pandemia, ogni giorno nel pomeriggio la Protezione civile, con Angelo Borrelli a capo della struttura, allestiva la conferenza stampa in cui venivano illustrati tutti i numeri del Covid in Italia, commentati dagli esperti. E pulire da commissari sempre più commissari. Ve lo ricordate Arcuri?


Ad ogni ora del giorno si animavano discussioni, scientifiche, economiche, sociali. E fu per effetto di quei numeri che arrivarono le chiusure e le riaperture colorate a seconda della gravità, regione per regione. Oggi vengono i brividi a ripensare a quel che accadde, alle spaccature sociali, persino dentro le famiglie. E poi le crisi aziendali, i crolli, la speranza (brivido…) di poter beneficiare di qualche intervento.
Furono quei numeri a creare le virostar, cioè quei medici esperti in materie fino a quel momento sconosciute ai più, le cui parole diventarono – nel bene e nel male – un vangelo da rispettare alla lettera. Malgrado i cambiamenti di versioni. Oggi quelle virostar sono tornate a fare il loro lavoro. Più o meno…
Col pensionamento per via burocratica dei bollettini ripensiamo alle scartoffie che dovevano compilare per uscire di casa, le autocertificazioni. Saranno invece impossibili da cancellare i banchi a rotelle, le mascherine, i tamponi e i green pass. I bollettini vanno in pensione dunque. Ma sui numerini che ci finivano sopra sono appena cominciate ben altre battaglie: sta’ a vedere che li manomettevano pure…

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