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Settimana corta, ecco cosa c’è davvero sotto. Quando un apparente vantaggio potrebbe nascondere una fregatura

Pubblicato il 06/02/2024 20:47 - Aggiornato il 07/02/2024 09:35

Ormai l’idea di ridurre la settimana lavorativa da cinque a quattro giorni si sta facendo largo in molti Paesi d’Europa. La cosiddetta “settimana corta” viene magnificata in molti modi. Si parla di aumento della produttività, di diminuzione delle assenze dal lavoro, di un miglioramento dell’atmosfera negli uffici. “La settimana lavorativa di 4 giorni mi sembra un’ottima idea, ma spetta alle parti sociali decidere. Molte aziende in Europa, anche nel Regno Unito, l’hanno adottata”. A dirlo è Nicolas Schmit, Commissario europeo per il lavoro e i diritti sociali. Curioso, però, che un funzionario con quella qualifica nel pronunciare parole così significative dimentichi un piccolo dettaglio. Che probabilmente avrete già notato. E lo stipendio? Il passaggio da settimana lavorativa normale a settimana corta avverrà a parità di salario? (continua dopo la foto)

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E’ questo il dettaglio che fa veramente la differenza. E le risposte non arrivano quasi mai in modo chiaro. Se in Gran Bretagna non hanno dubbi, e ritengono che i livelli di retribuzione debbano restare gli stessi, non è così per esempio in Italia e Belgio. Da noi si fa strada l’idea che i salari debbano essere ridotti. Ma come, non si è detto che lavorando un giorno in meno si produce di più? Allora che senso avrebbe, a fronte di un miglioramento della produzione, abbassare gli stipendi? Che oltretutto in Italia sono già a livelli vergognosi, fermi al palo da trent’anni? Di fronte a tutte queste omissioni e contraddizioni tanto tranquilli non stiamo. Perché la riduzione dei giorni di lavoro, se diminuisse il salario, equivarrebbe a introdurre in modo subdolo una nuova forma di flessibilità. Insomma, è come se vi costringessero a passare al part time facendo finta farvi chissà quale favore. (continua dopo la foto)

Nessuno nega che l’orario ridotto darebbe alle persone più tempo libero da passare in famiglia o con gli amici. Ma questo vale solo se la manovra non procura un danno economico. Altro punto importante, il parere dei lavoratori. Che in Francia, per esempio, considerano solo al quarto posto fra i propri desideri quello di lavorare un giorno in meno. Mentre al primo posto pongono la remunerazione. Chissà come mai… In ogni caso, la settimana corta non sarebbe uguale ovunque. Ci sono diversi modelli possibili fra cui scegliere. Il primo prevede il passaggio da 40 a 36 ore settimanali lavorate. Il secondo invece prevede di spalmare le 40 ore lavorative su quattro giorni. Cioè di lavorare per 9,5 ore al giorno. Questo è il modello applicato sinora in Belgio. Ma non sembra una grande idea, perché l’accumulo di fatica giornaliero e lo stress potrebbero ridurre la produttività. Il terzo modello, adottato in Italia da Intesa San Paolo, è una specie di ibrido: si riducono le ore ma di poco, passando da 37,5 ore settimanali a 36, lavorando quindi 9 ore al giorno per 4 giorni. (continua dopo la foto)

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C’è un’ultima ipotesi che qualcuno ha messo sul tavolo. Ed è che la riduzione degli orari sia accompagnata da un incentivo pubblico per mantenere gli stessi salari. Sgravando una parte di essi dai costi dell’azienda. Ma perché, se la stessa azienda produrrebbe di più? Oltretutto diminuendo anche le spese, con un giorno di chiusura in più. Questo punto non è molto chiaro. E in ogni caso questo sistema esiste già: si chiama cassa integrazione… Infine, va anche ricordato che la letteratura scientifica nega che la settimana lavorativa di 4 giorni possa portare a miglioramenti sul piano dell’occupazione, come invece qualcuno sosteneva. In ogni caso, possiamo concludere che l’idea della settimana corta è anche apprezzabile. Ma solo a patto che non si trasformi in uno svantaggio per i lavoratori. E il rischio c’è.

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