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Separare le carriere significa difendere i cittadini dalla malagiustizia

Pubblicato il 05/05/2024 10:35

«Si rischia di affondare un sistema che ha permesso di combattere fenomeni come la mafia e di debellarne altri come il terrorismo. O abbiamo dimenticato il sacrificio di molti magistrati?». Questa è stata la prima risposta del presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Giuseppe Santalucia, al Corriere sull’intesa politica raggiunta nel governo per una riforma costituzionale della giustizia. Una risposta fiacca, altamente retorica e inefficace nella difesa.
Nessuno ha mai messo in discussione il sacrificio di taluni magistrati nella lotta alla criminalità organizzata e al terrorismo, due entità nemiche dello Stato. Il sacrificio di quei magistrati sta drammaticamente dentro una scelta di vita aderente ai valori costituzionali e al senso dello Stato. Quindi nessuno si sognerebbe di offendere la memoria di quei magistrati.

Il tema è che accanto al sacrificio di quei magistrati c’è il sacrificio invisibile di tanti italiani vittime di un “potere” dello Stato espresso malamente da molti magistrati: dal 1991 al 2021 – dati ufficiali – oltre 30mila cittadini sono finiti dietro le sbarre senza aver fatto nulla di male. Da innocenti. Tante persone perbene si sono ammalate gravemente (non pochi si sono tolti silenziosamente la vita) o sono state rovinate economicamente non dall’Anti-Stato (cioè dalla mafia o da altri criminali) ma da chi agisce legittimato dallo Stato a esercitare un potere enorme, talmente enorme da poter incidere addirittura sulla libertà personale. Queste migliaia di italiani vittime di malagiustizia scompaiono dalle dichiarazioni dei magistrati, nonostante per colpa loro lo Stato è stato finora costretto a indennizzare quasi un miliardo a questi presunti colpevoli (come se bastasse un indennizzo a riparare il male e il danno subito).

Nel racconto di queste vittime emerge sempre che le procure diventano il moltiplicatore dell’errore all’origine della malagiustizia: scambi di persona, intercettazioni mal interpretate o mal trascritte. Errori spesso grossolani che però diventano “la” ricostruzione a prescindere dalla verità dei fatti; pertanto “la” ricostruzione si riverbera all’esterno, cioé su giornali e televisioni, e anche all’interno della stessa macchina giudiziaria per un appiattimento (culturale? Organizzativo? Corporativo?) dei giudici coinvolti nelle diverse fasi. Fintanto che un giudice finalmente terzo opera senza interferenze e si accorge dello scollamento tra l’accusa e la realtà dei fatti.

«É la riforma di chi ha in antipatia un singolo pm, un’inchiesta specifica, un provvedimento particolare», insiste il presidente dell’Anm, Santalucia. Al quale, alla luce di quel che abbiamo scritto sopra, non è difficile ribattere che chi è vittima di malagiustizia è vittima della esasperazione di un pm contro quella persona, della quale non si vogliono più vedere né la presunzione di innocenza né i diritti fondamentali. Le storie che ho registrato negli anni sono le storie di chi ti dice “non mi ha voluto ascoltare, mi ha preso e mi ha buttato dentro convinto che in quella condizione avrei confessato ciò che non potevo confessare perché non avevo fatto nulla”.
«Posso dire che ci sono stati sbagli – ammette Santalucia – perché siamo tutti umani e fallibili ma non si può fare una riforma avendo in testa solo questo». E invece sì, perché gli errori sono troppi, devastano la vita di cittadini innocenti e sono causati da un sistema che ormai non garantisce né la terzietà né una giustizia efficiente. Separare le carriere, anche con due concorsi diversi per diventare giudice o pm, e arrivare davvero a due Csm distinti, più un’Alta Corte esterna al Csm che giudichi tutti i magistrati, sono tappe quanto mai urgenti.

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