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Piano Colao: le solite ricette liberiste

Pubblicato il 10/06/2020 08:08 - Aggiornato il 10/06/2020 08:09

di Riccardo Achilli.

Il piano Colao è pessimo, sia dal punto di vista redazionale che contenutistico. Dal primo punto di vista, non ha impostazione, risolvendosi in una mera giustapposizione alla rinfusa di interventi in ogni settore, senza un filo logico che li metta insieme e li leghi in una strategia unitaria, senza una previsione di impatto e senza l’indicazione di priorità e di fonti finanziarie. Ma anche per i contenuti, ovvero per la filosofia sottostante, chiaramente legata ad una interpretazione ortodossa e poco fantasiosa della supply side economics di matrice neoclassica e liberale: l’intero piano è focalizzato sul miglioramento dei fattori di produttività dal lato dell’offerta (fisco, infrastrutture, snellimento della PA, capitale umano e ricerca, sostegno alla crescita dimensionale ed alla capitalizzazione, lasciando sullo sfondo il posizionamento di filiera di eccellenza di piccole imprese, che possono anch’esse sviluppare, con dovuti sostegni e strumenti, politiche innovative). 

Il tutto con i consueti stimoli di natura essenzialmente fiscale, che hanno dimostrato di funzionare solo per un gruppo molto ristretto di imprese medio-grandi ad elevato posizionamento sui mercati esteri ed alto profitto, ma non per il grosso del sistema produttivo, rischiando quindi di creare nuove fratture nelle filiere (e nei territori, ovviamente penalizzando quelli più deboli del Sud) nel non dare risposte, se non molto limitate, alle piccole imprese a mercato locale ed interno. 

In questa impostazione dal lato dell’offerta, Colao dimentica le diseguaglianze, che non sono solo un tema etico, ma economico: senza una chiusura delle diseguaglianze distributive, il mercato interno non potrà più sostenere la crescita economica, trasformando l’Italia in un Vietnam: Paese povero con imprese molto competitive ed alti tassi di attrazione di investimenti esterni. Ma questa strategia è fallimentare: i mercati esteri rischiano di essere depressi per lungo periodo, a causa del Covid, e senza difesa di quello interno una strategia meramente export-based rischia di essere fallimentare persino sul versante della crescita. Il mercato interno, in questa fase, esattamente come dopo la grande depressione degli anni trenta, dovrebbe essere il fortino da presidiare, stimolando consumi ed investimenti domestici, in un mondo sconvolto dalla crisi. 

Il capitolo sull’equità sociale, infatti, prende in considerazione soltanto le categorie astratte dell’immaginario dirittovicilistico liberale: le donne (ma non tutte le donne sono penalizzate socialmente e lavorativamente) i giovani ed i disabili, dimenticando la questione vera, quella più emergenziale: la questione della povertà e dei salari bassi che producono i working poors. Si affidano virtù taumaturgiche a politiche di scarso effetto, se non pericolose, come il commissariamento statale, senza coinvolgimento degli enti locali, delle infrastrutture strategiche, che rischia soltanto di far saltare il controllo sociale, a tutto vantaggio di penetrazioni mafiose nei cantieri, o l’abolizione del contante, che non colpirà la grande evasione fiscale delle imprese multinazionali che costituiscono fondi neri all’estero o truccano il bilancio, ma solo la piccola evasione, spesso di sopravvivenza e di piccolo impatto finanziario, dei bottegai o degli autonomi (anche qui, ribadendo una linea politica di lotta di classe contro il piccolo imprenditore, in favore di una economia piramidale gestita dalle grandi imprese prive di controllo politico nazionale). 

O come la sanatoria al lavoro nero, che la varie sanatorie fatte in passato hanno dimostrato essere inutile. O la sanatoria per i fondi esportati in evasione fiscale, che a fronte di recuperi di gettito non molto significativi, crea una sottocultura che spinge ad ulteriori fughe di capitale. O il reshoring di imprese italiane, che, anziché analizzare i complessi motivi dell’investimento off-shore, si illude di riportarle indietro con qualche incentivo fiscale. 

In tutta questa mediocrità economicistica, che ricalca ricette economiche fallimentari degli ultimi 20-30 anni e che si incardina nel paradigma neoliberista abbracciato anche dalla sinistra e nella lotta di classe attuale fra grande capitale globalizzato e piccolo capitale a mercato interno, a tutto danno degli strati popolari esclusi da ogni intervento e lasciati come sfondi sbiaditi nel secondo o terzo piano della fotografia, non vi è però traccia del famigerato Fondo che avrebbe veicolato la privatizzazione di asset ed aziende pubbliche tramite le garanzie, tanto paventato dai giornali nei giorni scorsi, e che evidentemente non poteva essere proposto, perché il mantra, adesso, non essendo quello di tornare all’Iri, è però quello di proteggere maggiormente le imprese pubbliche, viste evidentemente come presidi antipatici, odiosi, ma necessari (addirittura, il piano Colao prevede forme di copertura straordinaria delle perdite delle imprese pubbliche in difficoltà). 

Questo per dire che le cose vanno prese con prudenza, senza rincorrere i rumors, messi lì, spesso, per distrazione di massa. Pur senza il famigerato Fondo di sviluppo, il piano Colao, che di per sé non avrà nessuna vita autonoma, perché Conte non lo consentirà, è comunque una perfetta piattaforma programmatica per Confindustria, che sicuramente ne adotterà ampie sezioni negli Stati generali dell’economia. E’ su questo punto che tale piano va attaccato.

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