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La truffa del MES “senza condizionalità”

Pubblicato il 06/04/2020 10:44 - Aggiornato il 06/04/2020 11:33

di Thomas Fazi

Mentre in Italia continua la drammatica conta quotidiana dei morti, l’Unione europea e i nostri “partner” continentali sembrano avere una sola preoccupazione: come approfittare della tragica situazione in cui versa il nostro paese per stringerci ulteriormente il cappio del debito attorno al collo. Pare infatti che Francia e Germania abbiano trovato un accordo in vista dell’Eurogruppo di martedì prossimo (7 aprile), basato sull’attivazione del Meccanismo europeo di stabilità (MES) a “condizionalità limitate”, sul potenziamento delle linee di credito della Banca europea per gli investimenti (BEI) e sul nuovo fondo “anti-disoccupazione” SURE. 

Come volevasi dimostrare, insomma, alla prima occasione la Francia si è sfilata dal cosiddetto fronte “anti-rigore”, che in realtà vedeva opposti due nemici delle classi popolari: da un lato le classi dirigenti della Germania e dei paesi del nord che maggiormente beneficiano dall’attuale architettura europea – e che ritengono di avere sufficienti “cartucce” a disposizione per rispondere autonomamente alla crisi provocata dal COVID-19 – e dunque premono per mantenere sostanzialmente inalterata tale architettura; dall’altro le classi dirigenti dei paesi del sud (e fino a poco fa della Francia stessa), Italia in testa, che invece ravvedono nel collasso socioeconomico provocato dal COVID-19 una minaccia per la loro stessa sopravvivenza e dunque spingono per l’introduzione di nuovi strumenti – eurobond” et similia – che garantirebbero un po’ di ossigeno alle loro economie (e a loro stessi) ma nei fatti rafforzerebbero il carattere oligarchico della UE, accentrando ulteriore potere nelle mani di istituzioni anti-democratiche quali la Commissione europea, senza apportare alcun beneficio concreto per le classi lavoratrici e popolari dei paesi del sud. 

In poche parole, siamo di fronte a uno scontro tutto interno alle élite europee, che con ogni probabilità, comunque, si risolverà ancora una volta a favore della diarchia franco-tedesca, nella misura in cui le borghesie “vendidore” dei paesi del sud, per quanto vacillanti nel loro fervore europeista, non paiono ancora pronte a contemplare una fuoriuscita dalla moneta unica. E dunque finiranno per capitolare. 

Ma veniamo al merito della proposta franco-tedesca e a quello che significa per l’Italia. Al primo punto, come detto, troviamo la sottoscrizione di un prestito del MES a “condizionalità limitate”, una soluzione che, a quanto pare, incontrerebbe il favore di Gualtieri e dei tecnici del Ministero dell’economia e delle finanze (MEF). La soluzione che verrà discussa martedì, infatti, è stata redatta dall’Eurogroup Working Group (EGW), composto dai dirigenti dei ministeri delle Finanze di tutti i paesi UE, ed ha dunque ricevuto il via libera anche del MEF, nella figura di Alessandro Rivera, direttore generale del Tesoro e noto fedayìn europeista. 

Di tutte le opzioni sul tavolo, questa sarebbe di gran lunga la peggiore. Non solo ci indebiteremmo nei confronti di un’istituzione che agisce a tutti gli effetti come una banca privata – e che difatti è collocata al di fuori dell’assetto istituzionale dell’Unione –, a cui saremmo costretti a rimborsare ogni singolo centesimo, assurdità tutta europea, giacché è assodato che in tutti paesi “normali” (ovverosia che dispongono di una loro valuta) le spese per far fronte all’emergenza saranno monetizzate, de facto o de jure, dalle loro rispettive banche centrali – cioè non prevedranno alcun rimborso futuro –, come ammesso persino da Federico Fubini sulle pagine del Corriere della Sera

Ma, cosa ancor più grave, è assolutamente menzognera l’idea che l’Italia possa sottrarsi indefinitamente alle condizionalità del MES. Difatti, anche se nel breve gli Stati membri trovassero un accordo per aggirare la «rigorosa condizionalità» prevista dall’articolo 136(3) del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), su cui si basa il MES, magari accordandosi su una forma “leggera” di condizionalità, le condizioni a cui è soggetta l’assistenza finanziaria nell’ambito del MES possono essere modificate unilateralmente dalle istituzioni europee, come prevede l’art. 7(5) del regolamento 472/2013. Quest’ultimo, infatti, recita che: «La Commissione, d’intesa con la BCE e, se del caso, con l’FMI, esamina insieme allo Stato membro interessato le eventuali modifiche e gli aggiornamenti da apportare al programma di aggiustamento macroeconomico […] Il Consiglio, deliberando a maggioranza qualificata su proposta della Commissione, decide in merito alle modifiche da apportare a tale programma». 

Sarebbe a dire che i creditori, in qualunque momento, potranno cambiare le condizionalità dei prestiti concessi, avendo dalla parte loro la forza di un trattato europeo. Come scrivono Floriana Cerniglia e Francesco Saraceno sul Sole 24 Ore: «Si può prevedere che, non appena la tempesta sarà passata, il MES (il cui Consiglio dei governatori è composto dai ministri dell’Economia dei paesi membri) pretenderà dai debitori condizioni ben diverse, e si tornerà a parlare di piani di rientro, avanzi primari e così via». Su questo il vicepresidente esecutivo della Commissione europea, Valdis Dombrovskis, è stato molto chiaro: passata l’emergenza i paesi dovranno rientrare del debito e del deficit accumulati per gestire la crisi, assieme agli squilibri pregressi. 

Inoltre, come notano i giuristi Marco Dani e Agustín José Menéndez, «il fatto che l’assistenza finanziaria sia erogata “a rate” garantisce che per tutta la durata del prestito i creditori abbiano non solo il potere giuridico, ma anche quello economico di variare le condizioni con cadenza semestrale». In altre parole, non si tratta solo di persuadere Angela Merkel e Mark Rutte, «ma di continuare a convincere per anni ciascuno dei loro successori della bontà del prestito MES a condizionalità leggera. Qualcosa che, chiaramente, è poco realistico». 

C’è poi un altro punto, sottolineato sempre da Dani e Menéndez: il MES prevede che i debiti contratti con esso siano sottoposti al diritto di Lussemburgo. L’obiettivo di questa pratica è evitare che il debitore modifichi le condizioni o la consistenza delle proprie obbligazioni nell’esercizio della propria sovranità monetaria. «La conseguenza di questa pratica – scrivono i due giuristi – è che ogni stato che ricorre al MES vede diminuita la possibilità di un recupero della propria sovranità monetaria anche se decide di lasciare l’eurozona, dato che in tal caso affronterebbe una montagna di debito in valuta estera senza la possibilità di ridenominarla in futuro». 

Infine, c’è la questione della limitatezza delle risorse del MES: 440 miliardi di euro per tutta l’eurozona, una cifra che è assolutamente incapace di assicurare il rifinanziamento del debito pubblico italiano, per non parlare di quello complessivo dell’eurozona. Il risultato è che in un secondo momento, per garantire la solvibilità dell’Italia e metterla al riparo dalla speculazione, si paventerebbe senz’altro la necessità di un intervento diretto della BCE sui mercati dei titoli sovrani italiani. Tuttavia, in base alle regole attuali, un intervento mirato e illimitato della BCE a favore di singoli paesi attraverso il programma OMT (Outright Monetary Transactions) è sottoposto anch’esso a rigorose condizionalità e dunque rappresenterebbe un’ulteriore arma nelle mani dei creditori per imporre una stretta ai paesi debitori, o comunque aprirebbe un nuovo fronte politico, esponendo nel frattempo l’Italia alla furia degli speculatori. In tal senso, il recente invito della banca tedesca Commerzbank a vendere i BTP italiani, lungi dal rappresentare un “complotto” ai danni del nostro paese, appare del tutto giustificato. Preoccupa piuttosto che i nostri politici non vedano – o facciano finta di vedere – i rischi fotografati dalla banca tedesca. 

Veniamo ora alle due altre due architravi del piano franco-tedesco: il potenziamento delle linee di credito della Banca europea per gli investimenti (BEI) e il nuovo fondo “anti-disoccupazione” SURE. Sul primo c’è poco da dire: non si tratta di fondi che andranno agli Stati ma di prestiti che la BEI metterà a disposizione delle imprese europee. La vera beffa, però, è rappresentata dal “grande piano di aiuti” (stampa italiana dixit) messo in campo dalla Commissione europea, il SURE, un fondo di circa 100 miliardi di euro finalizzato in teoria ad aiutare i paesi europei a sostenere i costi della cassa integrazione. A prima vista sembrerebbe una misura positiva. Ma il diavolo, come sempre, è nei dettagli. Innanzitutto le risorse eventualmente trasferite allo Stato richiedente sono un prestito e dunque andranno ad aggiungersi al debito pubblico (esattamente come i prestiti del MES). Ma c’è di più. Come sottolinea Stefano Fassina

Ciascuno Stato dell’UE deve dare garanzie irrevocabili, liquide e immediatamente esigibili alla Commissione affinché la Commissione possa emettere sul mercato i titoli necessari a raccogliere le risorse da prestare agli Stati in difficoltà. Nella narrazione, è poi saltato che la partecipazione al programma è su basi volontarie e che il programma parte soltanto quando tutti gli Stati membri mettono a disposizione della Commissione le garanzie necessarie. Inoltre, l’astuta terminologia «fino a 100 miliardi» copre la possibilità di arrivare a un ammontare di risorse disponibili decisamente inferiore, poiché dipendente dalle garanzie volontariamente messe a disposizione da ciascuno degli Stati UE e dai limiti annui di impegno contenuti nelle norme istitutive: per avere a disposizione 100 miliardi da distribuire, sono necessarie garanzie per 25 miliardi; il massimo utilizzo complessivo annuo, per tutti gli Stati richiedenti, può essere soltanto il 10 per cento delle risorse mobilizzabili dal Fondo. 

Dunque, nel breve termine – cioè nella fase più acuta della crisi economica e sanitaria – l’Italia potrà realisticamente avere a disposizione al massimo qualche centinaio di milioni in prestito, ma solo dopo aver impegnato due o tre miliardi in garanzie «irrevocabili, liquide e immediatamente esigibili». In sintesi, tutte le misure proposte dall’Europa si inquadrano saldamente nella logica disciplinatoria del debito su cui si fonda l’Unione europea. Possono essere definiti “aiuti” nella stessa misura in cui può definirsi “aiuto” il prestito di uno strozzino ad una famiglia in difficoltà. 

Veniamo infine all’opzione auspicata di recente da Mario Draghi sulle colonne del Financial Times e caldeggiata dal Movimento 5 Stelle: quella di reperire i soldi sui mercati, aumentando significativamente il deficit, approfittando del “potenziamento” del programma di quantitative easing (QE) annunciato dalla BCE. Nel breve periodo questo rappresenterebbe indubbiamente il male minore nella cornice dell’euro. Tuttavia a un certo punto si riproporrà lo scenario evocato poc’anzi: dato il suo crescente rapporto debito/PIL, che potrebbe portare anche a un declassamento da parte delle agenzie di rating, arriverà il momento in cui l’Italia non sarà più in grado di rifinanziarsi sui mercati e dunque necessiterà di un intervento continuativo e illimitato della BCE sul proprio mercato dei titoli sovrani, il che sarà pressoché impossibile ottenere senza la sottoscrizione di un programma del MES, come detto sopra. 

È una misura, insomma, che non risolverebbe nessuno dei problemi strutturali della moneta unica ma che permetterebbe al sistema di guadagnare un po’ di tempo, scaricando l’onere dell’aggiustamento – o dell’assunzione di scelte più drastiche – su chi verrà dopo. Che poi è quello che hanno sempre fatto le nostre classi dirigenti pur di non assumersi le loro responsabilità di fronte alla storia. La realtà dei fatti è che non esiste soluzione alla crisi pluridecennale dell’Italia nella cornice dell’architettura europea e prima o poi saremo costretti a fare i conti con questa verità. Purtroppo più tempo passa e più deboli arriveremo a quell’appuntamento inevitabile con la storia.