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Il mio ricordo del Bobo, ministro rock e coraggioso

Pubblicato il 23/11/2022 21:05 - Aggiornato il 24/11/2022 08:56

Di Gianluigi Paragone – Roberto Maroni… quanti ricordi. Da dove cominciare? Non è facile quando gli episodi si accavallano confondendo i sentimenti. Per questo non posso scrivere un commento organico, lineare. Ci sono troppe cose da infilare dentro una giornata cominciata con un pugno in faccia, per quanto mi fossero note le condizioni di salute.

Era il 1994 e Roberto Maroni mi diede l’occasione di finire in prima pagina una domenica di dicembre: era il 18, il giorno prima Bossi aveva dato l’ordine di mettere in fuorigioco il governo di cui il Bobo era ministro dell’Interno e vicepremier assieme a Pinuccio Tatarella. Maroni però non era convinto di quella mossa, per quanto quella riforma delle pensioni prospettata da Lamberto Dini non lo convincesse affatto (<Penalizza la gente del nord>): toccherà ancora una volta a lui, molti anni dopo, rivederla profondamente e col dolore di vedere il suo collaboratore Marco Biagi cadere sotto i colpi delle nuove Brigate Rosse. Bene ha fatto Giorgetti a ricordare ieri il passaggio previdenziale dedicato all’amico leghista.

Quella domenica Maroni vestiva gli abiti del ministro ma prima ancora del figlio venuto a vedere la sua adorata madre tra i premiati dell’associazione commercianti: cinquant’anni di attività di bottega in quel di Lozza, paese da dove il lumbard non si è mai mosso. Fino all’ultimo viaggio. <Ti faccio scrivere un pezzo di storia>, mi prese in giro. <Apri il bloc notes>. Avevo tanti capelli ricci anch’io. Come lui. Mi rilasciò una intervista in esclusiva per la Prealpina di Varese. <L’esperienza del governo Berlusconi è finita>, dichiarò. Buum, non mi pareva vero di avere in mano la notizia. Era un modo per rimettersi in bolla con il suo amico di sempre, l’Umberto. Per quanto vedesse storto quell’accordo che il Senatur aveva già in tasca con D’Alema, Buttiglione e in un certo senso pure con il Capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro. Maroni pagò caro il suo dissenso perché Bossi era convinto che Berlusconi stesse utilizzando alcuni ministri leghisti per spaccare la Lega. Era vero, ma il Bobo non era tra costoro: troppo leghista e troppo amico dell’Umberto, al quale affidò la sua stessa vita politica e pure la piccola auto della madre per andare in giro con un secchio di vernice a scrivere i primi slogan autonomisti sui muri del varesotto. Questa cosa dei muri come libri di storia e della scritta rocambolesca sul cavalcavia con tanto di barattolo di vernice che si rovescia in macchina per scappare dall’arrivo della polizia era uno dei classici nel racconto dei due quando si finiva in pizzeria. Già, la polizia… Lui che l’aveva retta a capo del Viminale per ben due volte poi se la vedrà “contro” in via Bellerio quando l’allora procuratore di Verona Guido Papalia indagò sulla Guardia nazionale padana. Era la stagione della Lega secessionista, sola contro Roma Polo e Roma Ulivo. E giù con altri manifesti storici disegnati sulle tovagliette in carta tra una capricciosa e una quattro stagioni.

Maroni ministro dell’Interno, dal pugno di ferro contro mafie e immigrazione (suoi i primi decreti sicurezza)  e del lavoro (la già citata riforma delle pensioni e altre norme in tema di flessibilità). Maroni governatore della Lombardia dopo la lunghissima stagione di Formigoni. Maroni tifosissimo del Milan e appassionato di vela. Maroni il braccio destro del Capo, l’uomo del dialogo a sinistra (lato confidenziale di un cuore politico nato ai bordi di Democrazia Proletaria), controcanto all’impeto del Senatur al quale dovette succedere dopo l’ictus. 

Del resto lui il controcanto lo sapeva fare bene, con i tasti bianchi e neri dell’organo hammond più che con quel sax con cui Giannelli lo ritraeva nelle sue vignette. Ed è qui, tra le scale blues, che i miei ricordi si fanno più personali. Lui che suona al festival di Porretta Terme, lui coi suoi amici del Distretto 51 abituati a vederlo coperto dal cappellino dell’Hockey Varese, occhiali da sole e giubbino jeans. Lui che suonava nelle feste di paese e studiava sul Clavinova infilato nelle stanze del ministero. Infine lui, il Bobo da Lozza, che in una mia trasmissione su Raidue (dove mi volle come vicedirettore) non resistette alla voglia di unirsi a me, a Edoardo Bennato e a Filippo La Mantia in una performance dal vivo sulle note de La Torre di Babele. Una specie di esorcismo contro la babele romana a cui aveva preso le misure e anche le distanze.

Ps. Bobo, la foto di te con l’arco e la maglia “si coltivano ovini e suini” la conservo ancora io.