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Il virus più dannoso è la nostra paura

Pubblicato il 28/02/2020 18:00

di Gianluigi Paragone

Stiamo esagerando? Adesso la domanda rimbalza ovunque, dai luoghi istituzionali ai bar, dalle associazioni di categoria alle mense dei lavoratori, come a sottolineare un senso della misura smarrito assieme al senno. Eppure ormai la domanda è fuori tempo massimo, la pallina nel flipper schizza e rimbalza a suo piacimento condizionata da palinsesti e timoni studiati con logiche precise, che poco hanno a che vedere con l’informazione e molto con le gare di share. Il coronavirus fa ascolto, la medicina supera il linguaggio di Medicina Trentatré e si fa infoteinment, i giornali spingono la foliazione laddove solo le crisi di governo o le tensioni internazionali li portavano. Persino i profili social dei politici interessati alla vicenda vedono i like nelle loro pagine gonfiarsi grazie al virus.

Ognuno ha costruito un pezzo di questo stress collettivo che ha mischiato ragioni ed emotività, paure e tutela. Fatto sta che in una manciata di giorni abbiamo paralizzato l’Italia, danneggiato pesantemente l’economia reale, costruito scenari apocalittici, generato i presupposti per un collasso delle strutture sanitarie pubbliche che di giornata in giornata si farà sempre più intenso (tanto che abbiamo rigenerato gli ospedali militari ormai scomparsi dai radar dell’interesse politico). Un plauso speciale va proprio ai medici che, in condizioni di sottostima, stanno gestendo con estrema professionalità una situazione che ad altri è sfuggita di mano ingigantendola per paura delle debolezze di sistema. Tuttavia vado oltre e provo a ragionare su un punto debole troppo sottile per essere visto, un filo sottile che lega i vari pezzi dello stress collettivo: l’ansia della paura.

L’illusione di aver esorcizzato le paure attraverso una società iper-sorvegliata e iper-controllata è franata di colpo quando la possibilità di una destabilizzazione delle nostre vite è entrata nelle nostre vite. Non parlo della destabilizzazione ma solo della sua possibilità, la sua opzione. Ci siamo bloccati lì, il virus misterioso è diventato quell’uomo nero che usciva dal buio per farci male. Quella società che si credeva adulta si è scoperta fragilissima, infantile. Come i bambini piangono, gli adulti prendono d’assalto i supermercati, si coprono con le mascherine e si chiudono. E ora che succede? E ora chi ci difende? E ora come si vive in isolamento, in quarantena? Si parla spesso di cultura, ma proprio la scelta di “ripulire” pure la cultura dal senso del tragico e dal senso della sofferenza oggi si rigira contro di noi. Gli antichi non si sottraevano alla narrazione più cruda delle violenze, delle sofferenze, del dolore, ma lo stravolgevano dandone – attraverso la catarsi – un senso educativo.

Le tragedie, insomma, erano compiutamente narrate. Non c’era formazione (paideia) senza quella crudeltà drammaturgica. Oggi invece facciamo di tutto per nascondere il male dalla società e anziché “processarlo” lo vogliamo espellere e basta. La modernità cui tendiamo è irresponsabilmente sterilizzata dalla tragedia, dal dramma, preferendo costruire una bolla di pace, di benessere, di buoni sentimenti fragili. E di una finta sicurezza trasmessa attraverso la sorveglianza, il controllo totale delle nostre vite, delle nostre abitudini. Un virus alieno ci manda nel panico della nostra infanzia, a tal punto che il panico diventa virale facendo più danni dell’influenza stessa.

Restiamo appiccicati davanti alla televisione o ai siti affamati di aggiornamenti come se fosse una guerra; persino le parole e le espressioni richiamano a un vocabolario bellico. E più c’è fame di notizie e più aumenta l’intensità del racconto. L’esagerazione non ha misure perché si supera per paura di non essere all’altezza delle domande generate dalla paura. La gente ha paura, chiede protezione. E chi dovrebbe gestire questa paura – un tempo li avremmo agenti di controllo sociale – ha paura di non essere all’altezza della domanda di protezione. E quindi ha un’altra paura.

Questo editoriale è stato pubblicato su Il Tempo del 27 febbraio 2020.

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