Di Gianluigi Paragone – Silvio e Umberto: due diversi modi di intendere il nord, due diversi stili per catturare cumenda e famiglie di quell’intreccio “casa e bottega”, due diversi linguaggi per intercettare quel malessere che oggi produce ore di dibattuti e fiumi di inchiostro sotto i titoli di populismo, antipolitica e che in fondo resta sempre la stessa allergia, distanza e anche antipatia verso quei palazzi del potere e verso quella burocrazia che <si mantiene sulle nostre spalle>.
Il Silvio dal quartiere Isola e l’Umberto da Cassano Magnago erano figli di quel nord lì. “Roma ladrona” avrebbe detto Bossi in una sintesi ineguagliabile che, sul finire degli anni Ottanta, iniziò a tormentare il sonno del pentapartito, per poi disintegrarlo negli anni Novanta soffiando sul fuoco di Mani Pulite. Bossi e la Lega. Silvio invece aveva cominciato prima, dalla barricata degli imprenditori, con l’idea di una nuova edilizia e soprattutto con la tv commerciale. Come il Senatur ruppe la Prima Repubblica, il Cavaliere ruppe il monopolio di una Rai che replicava la spartizione del potere: una rete alla Dc, una al Psi e una al Partito Comunista. Ma chi parlava davvero agli imprenditori come lui? Nessuno. Fino a quando Silvio Berlusconi pensò a come raccogliere quelle aziende e creare un nuovo mercato pubblicitario, una nuova vetrina. “Corri a casa in tutta fretta, c’è un Biscione che ti aspetta”: fu l’inizio dell’avventura. E di un nuovo mondo.
Non potevano non incontrarsi, quei due: l’Umberto e il Silvio, che tra l’altro una Bossi ce l’aveva in casa ed era l’adorata mamma Rosa. E poi Confalonieri, già padano prima di incrociare il Carroccio. Non potevano non incontrarsi, amarsi ma anche marcarsi a uomo: Bossi ruppe infatti il primo governo del centrodestra berlusconiano proprio per paura che il Cavaliere volesse fagocitare quell’elettorato che Bossi addomesticò per primo a botte di comizi e manifesti iconici come il “Paga somaro lombardo” con la gallina del nord che sfornava le uova e una matrona romana che se li pappava. Una volta prese la misure capirono che non potevano fare a meno l’uno dell’altro: la prima vittoria di Prodi accadde perché il Carroccio si presentò da solo contro l’alleanza che Berlusconi assemblò con Fini e Casini. Quella sconfitta li costrinse a fare pace, ma in fin dei conti non aspettavano altro perché il Cavaliere all’Umberto era davvero legato. Ricambiato. Seguirono le cene del lunedì sera ad Arcore dove si programmava l’agenda della settimana politica: le riforme fiscali, il federalismo, l’immigrazione. Insomma, ciò che all’intelaiatura nordista di capannoni, partite iva, imprenditori, commercialisti e gente di business interessava più di ogni altra cosa. Difesa dell’identità e dei soldi.
Quelle cene facevano paura, Roma non tollerava di avere seconda, dietro Milano. Infatti quando Bossi si ammalò, Tremonti fu fatto fuori e il Cavaliere si ritrovò scoperto nel gioco del buono e del cattivo, del moderato e del rivoluzionario. Poi venne tutto il resto. Sono riusciti a realizzare la richiesta di quel vento profondo di cambiamento? Non come il nord vorrebbe e nella velocità che chiede, ma è indubbio che oggi quel popolo non avrà due altri gemelli del gol così visionari e forti. Tanto da aver obbligato tutti a cambiare passo.