di Gianluigi Paragone – Sono stato in Rai con la qualifica di vicedirettore prima di Raiuno poi di Raidue. Scelto dalla politica, come ammisi seduta stante: avevo un contratto a tempo indeterminato da dirigente. Litigai con la stessa parte politica che lì mi mise e non voleva che facessi a mio modo il programma. Mi dimisi (fatto abbastanza raro con quel po’ po’ di contratto) e me ne andai. Quando il cda decise la mia nomina si spaccò esattamente come si è spaccato l’altro giorno: è un esterno, il centrodestra vuole occupare tutte le poltrone e via discorrendo. Come se quando arriva al governo il centrosinistra i direttori li nominasse lo spirito santo. Certo, qualcuno ormai in Rai si sente come il padreterno: Mario Orfeo, per esempio, o Monica Maggioni. Avere le amicizie giuste fa bene.
Insomma, tutto torna anche le polemiche, prevedibili come le scalette di Fabio Fazio. Ah, a proposto: si dice che le recenti decisioni del cda difettino nella parità d genere: non mi sembra che la campagna acquisti della tanto strombazzata Nove abbia puntato sulle donne: dopo Maurizio Crozza, ecco Fabio Fazio (con la Litizzetto come spalla). Sono scelte.
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La questione di fondo, tuttavia, non è chi nomina e quanta politica ci sia nelle nomine ma quanto pesa questa politica in una televisione che ha cambiato completamente pelle. Quando nella Prima Repubblica si lottizzava a piene mani, la Rai era davvero un pezzo di potere; oggi non lo è più: oggi si starnazza attorno a un’azienda che vede progressivamente erodere la fetta di suo pubblico perché altri soggetti sono entrati nel mercato, un mercato che è generalista e non solo. Se prima il cielo era diviso in due, Rai e Mediaset, oggi si va persino ben oltre il canale sette e si trovano offerte interessanti; poi ci sono i canali della tv on demand e di piattaforme potenti qual è YouTube, sulla cui identità prima o poi occorre che la politica faccia una riflessione. Perché un editore deve rispettare delle regole per andare in onda, mentre YouTube può fare quello che vuole? E’ un editore o una piattaforma? Lo sapete che è di proprietà di Google? E che i nuovi televisori hanno installato di default Google come motore di ricerca e YouTube come un canale e attraverso questi due “soggetti” memorizzano tutto quello che noi facciamo come spettatori? E sapere che Google è il più grande raccoglitore di pubblicità?
Mentre dibattiamo di Fazio e dell’Annunziata, i quali troveranno sicuramente editori e platee più amiche; mentre siamo qui a fare l’esame del sangue a Chiocci come fosse un alieno del giornalismo (sarà un eccellente direttore, migliore della Maggioni e di Carboni) o a discutere della Rai “meloniana”, la televisione è già su un altro livello. Quanti prodotto video consumiamo al giorno attraverso i telefonini o i tablet e quanta tv tradizionale vediamo? Fiorello sperimenta nella fascia del mattino presto perché in quella della seconda serata (come un tempo faceva Arbore) non c’è spazio, occupato da prime serate tirate fino oltre mezzanotte per la sfida dello share. E’ paradossale: mentre i prodotti video si accorciano (le piattaforme cercano pezzi corti e sui social vanno le clip o i video sotto i due minuti), la “vecchia” tv allunga le prime serate per risparmiare. La serie Netflix su Emanuela Orlandi ha fatto riaprire il caso e soprattutto il dibattito, con una scrittura che la generalista non mastica. Eppure la Rai potrebbe essere ancora un top player se solo avesse una forza narrativa nuova nel linguaggio ma tradizionale nel suo campo ottico. Le polemiche sulla conquista della Rai sono un copione da talk, nulla di più. E soprattutto nulla di nuovo.