di Gianluigi Paragone
Il Movimento che nacque nelle piazze animato da parole nette, radicali e antisistema, parla di futuro in una sala confortevole, chiusa, arredata per un colpo di scena straspoilerato, con parole acrobatiche come “facilitatori”. Il futuro è un’ipotesi, è un salto nel buio perché erode ciò che il Movimento era stato. Non c’è bisogno della zingara per decriptare il futuro del Movimento: sarà una forza europeista e riformista, quindi inutile. E lo dico con dolore. Il famoso 33% non tornerà più perché non c’è più una offerta politica capace di illuminare le ingiustizie che il riformismo neoliberista ha generato. Le ingiustizie contro cui si scagliò il Movimento erano il prodotto malefico di una stagione tossica, tecnica e politica, dove le insegne del Pd erano costanti. Ora il Pd fa da fratello maggiore. Less is more, dicono gli inglesi. Di Maio ha dovuto scriversi un testo lungo un’ora per terminare una seduta psicanalitica, individuale e collettiva nello stesso tempo.
La crisi del capo politico si sovrappone alla crisi del Movimento stesso, angosciato dai “traditori” più che illuminato dai facilitatori. Nessuno però ha tradito più di chi in due anni ha spento una speranza e dilapidato un patrimonio di consensi. Chi dovesse prendere in mano il Movimento sa che la strada è segnata, che la mappa non prevede altre rotte se non quella dello schiacciamento a sinistra. Eppure lo spazio antagonista c’è, oltre un centrodestra in bilico tra citofoni e Mario Draghi, e oltre un centrosinistra partner dell’establishment. Di Maio è teso, invecchiato, sfibrato. Le sue dimissioni sono un altro segno della opacità di chi sbaglia i tempi. Dimettessi adesso non impedirà di scaricare su lui stesso lo shock di lunedì (a chi vuoi addebitarlo, a Vito Crimi?), né la possibile sconfitta in Campania, a fine febbraio, dove si voterà per le suppletive dopo la scomparsa del bravo e preparato senatore pentastellato Franco Ortolani (il Movimento presenta un amico di Luigi Di Maio, il centrosinistra Sandro Ruotolo).
Di Maio avrebbe dovuto dimettersi all’indomani del voto su Rousseau attraverso il quale, chiedendo di presentarsi alle Regionali, si smentiva l’idea del capo politico. Non lo ha fatto perché sperava di tirare a campare ancora un pochino, facendo male i conti rispetto al malessere crescente tra i gruppi. Cosa succederà adesso? Nulla, il Movimento cercherà di ridefinire il proprio codice e quindi – come scrivevo – di abdicare al suo ruolo. L’orgoglio di aver votato la Commissione Ursula smentisce ogni battaglia di cambiamento radicale visto che i commissari top player sono gli stessi della gestione Junker, pertanto l’adesione all’europeismo stringerà ancor più gli spazi di manovra politica-economica. Le rassicurazioni sul governo, infine, rafforzano il ruolo di Giuseppe Conte e raffredderanno le campagne circa la revoca/annullamento delle concessione ai Benetton.
Il Movimento in cambio avrà un pezzo della mappa del potere italiano da gestire, il che significa non soltanto gestire le nomine ma le risorse che le partecipate offrono a chi sa stare a Palazzo. Per farla breve il futuro del Movimento 5 stelle sta in quel mondo che il Movimento conte-stava in passato. Finché dura. (Ma non dura…) Ps. Ovviamente visto che il Movimento è tutto questo, non ha alcun senso che io faccia ricorso al giudice ordinario. Potrei vincere ma starei fortemente a disagio in una forza europeista, di sistema e alleata col Pd e con Renzi. Nel Movimento ci sono persone che stimo e che continuerò ad apprezzare ma la politica in cui credo è un’altra, è più aggressiva e soprattutto più radicale nelle proposte. I tempi rapidi con cui la crisi si sta mangiando la vita delle persone necessitano tempi di reazione altrettanto rapidi e scelte in netta discontinuità.
Questo editoriale è stato pubblicato su Il Tempo del 23 gennaio 2020.
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