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L’Italia che non riapre. Storia di chi ha gettato la spugna.

Pubblicato il 19/05/2020 15:55

Secondo stime fornite da Confcommercio e riportate da “La Repubblica”, sono circa 270 mila le imprese che rischiano di non aprire, 45 mila quelle che rischiano nel settore della ristorazione e 377 mila i dipendenti di negozi, bar e servizi che rischiano il posto di lavoro. 

Tra i grandi ostacoli che gli imprenditori si trovano a dover affrontare ai tempi del coronavirus, ci sono quelli che riguardano le incertezze sul ‘come’e ‘a quali condizioni’. Come fare nonostante le procedure di sicurezza, come fare nonostante gli incassi saranno meno della metà e i costi invariati? Come fare a far fronte alle spese di sanificazione? Tantissimi quesiti aperti a cui il governo non dà risposte e che gravano interamente sulle spalle e sulla responsabilità degli imprenditori. 

Problemi concreti che spiazzano e complicano le attività, anche ad aziende di un certo calibro, e che pertanto decidono di non aprire. Proprio come nel caso di Giorgio Sermoneta, proprietario delle illustri botteghe di prodotti in pelle, con circa duecento artigiani e diverse sedi, a NY, in Giappone, a Venezia e a Firenze. Sermoneta spiega: “Ho sentito decreti e promesse ma nessuno che mi abbia detto che si fa quando si vendono guanti di pelle. Si sanificano? E come? La pelle si macchia. Nessuno ha delle risposte. Ho dovuto chiudere tutti i miei locali e non so quando riaprirò. Posso solo aspettare e cercare di capire cosa ci sarà dietro l’angolo.”

Ne pagano le conseguenze gli imprenditori veri, quelli che l’economia reale la respirano ogni giorno. Lorenzo Vanni è il più giovane di una famiglia presente nel mondo della ristorazione a Roma da quasi un secolo, anche lui ha deciso di non riaprire: “Rimaniamo fermi, non basta dire ‘riaprite’. Non posso riaprire se non è chiaro di chi è la responsabilità penale nel caso in cui un mio dipendente dovesse contrarre il virus. Di dipendenti ne ho cento non posso fare scelte azzardate. Le prospettive di mercato sono devastanti. Nessuno di chi lavora con me ha ricevuto la Cig, come posso non ragionare da padre e richiamarli sapendo che potrei non essere in grado di pagarli?”

Alle condizioni esistenti gli imprenditori non riescono a sopravvivere. Lo testimonia anche Carmelo FIorito, proprietario di una piadineria in uno dei quartieri popolari di Torino. Nonostante il lockdown sia finito, ha dovuto abbassare le serrande: “L’unica strada percorribile è stata la chiusura definitiva. Avevamo più spese che guadagni. Dalle consegne a domicilio non sono arrivati grandi incassi.”

Il governo deve dare immediatamente risposte adeguate per sostenere questa situazione straordinaria. Gli imprenditori devono essere messi nelle condizioni di poter fare impresa, di poter lavorare. Con queste condizioni il sistema economico soffocherà.