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Il reddito non va. Il lavoro nemmeno

Pubblicato il 27/11/2022 10:20 - Aggiornato il 27/11/2022 10:21

di Gianluigi Paragone – Il dibattito sul reddito di cittadinanza rischia di essere come i tempi supplementari nelle partite. Mi spiego: se è vero – com’è vero – che in campagna elettorale il tema del lavoro si è ridotto al quesito reddito sì reddito no, non deve stupire la revisione portata avanti dal governo a guida Giorgia Meloni in Manovra. Del resto la Lega faceva parte del governo che lo istituì; Forza Italia con Silvio Berlusconi ne aveva scoperto i benefici arrivando addirittura a rilanciarne gli importi; i soli a condurre la crociata “contro” erano quelli di Fratelli d’Italia (a parte il duo Calenda-Renzi). Dunque, eccoci qui a fare ancora i conti con i tempi supplementari di un dibattito nato in tempo d’elezioni che lascia fuori le domande cruciali: chi crea lavoro? Come creare occupazione? E soprattutto come difendere chi piccole e medie imprese e partite iva? Concentrarsi su una parte (il rdc) come fosse il tutto (il lavoro) è una sineddoche che pagheremo caro, per quanto siano vere sia la declinazione sociale (chi non può lavorare non si può certamente lasciare ai margini della società) sia quella emergenziale (chi perde il lavoro va agevolato nel percorso del reinserimento). Tuttavia non basta affatto. Il lavoro sta perdendo la sua centralità e ogni scusa è buona per giustificarne la destrutturazione: una volta è la flessibilità come occasione di rilancio, un’altra è la globalizzazione, un’altra ancora è la crisi, un’altra è la digitalizzazione e via di questo passo. Negare che queste variabili ci siano è fuori discussione. La sfida è rivoluzionaria (e su questa l’Europa non ci è amica perché sta dalla parte dei grandi): non si può far pagare ai lavoratori o ai piccoli imprenditori il prezzo dell’esclusione progressiva perché saremo sempre più interscambiabili con i robot, con gli algoritmi e le intelligenze artificiali o perché la concorrenza globale esclude i piccoli (i famosi zombie di Draghi) o ancora perché nuovi sfruttati (migranti, poveri eccetera) sfondano le porte; chi accetta questo paradigma si deve accollare uno smottamento sociale con derive violente e pericolose. Nè si può pensare che questo cambio di paradigma sia imposto da una élite di miliardari. (Continua dopo la foto)

Dunque il lavoro va difeso e rilanciato, con interventi fiscali pesanti, coraggiosi: procedere di limetta non incide per nulla sul disequilibrio. A quel punto va da sé che agli esclusi e ai furbi non conviene altro che la difesa tout court del reddito di cittadinanza e del salario minimo; come a dire: arrangiatevi con questo altrimenti siete fuori. Ed è questo il vero messaggio delle scorse politiche: il nuovo “paradigma” prevede la compressione dei diritti e delle libertà e il rilascio in dosi decisamente più leggere che consentono la sopravvivenza. Il Movimento, consapevolmente o meno, è alleato del nuovo ordine di cose. La difesa che Conte e il Movimento Cinquestelle fanno del reddito è parte della dialettica politica di Palazzo, ma difetta di coerenza. Il Conte che chiama alla rivolta sociale in nome dei poveri e si fa paladino dei più deboli è lo stesso che non ha tolto le concessioni autostradali ai Benetton dopo la tragedia del ponte Morandi fa capire il peso della sua passione sociale. Così come è imbarazzante l’intero Movimento Cinquestelle che per salvare i big al secondo mandato non ha perso tempo a siglare contratti “importanti” anche a costo di lasciare a casa collaboratori storici del gruppo parlamentare. Il lavoro è una sfida grande, dove lo Stato e il governo devono essere centrali. Il lavoro va difeso e va rilanciato. Se si continua con un gioco a sottrazione dove se metti alle partite iva togli a qualcun altro, se metti un qualcosa in più da una parte togli dall’altra, non si va lontano. Il carico fiscale sul lavoro necessita di una scelta radicale, potente, pesante, esattamente dello stesso tenore con cui negli ultimi decenni sono state concesse autostrade a favore di finanza e multinazionali. Non si può accettare che il conto della crisi finisca sempre sugli stessi tavoli.