Com’è possibile che negli ultimi undici anni l’artigianato ha perso la bellezza di 410mila lavoratori? La crisi dell’artigianato è un tema che ciclicamente si pone all’attenzione di una classe dirigente che evidentemente non ha azzeccato le mosse per fermare la crisi e soprattutto impostare una nuova direzione. Il crollo è costante. Così siamo alle solite: abbiamo di gran lunga più avvocati che idraulici, fabbri, elettricisti eccetera eccetera.
Provo a sviluppare una mia risposta lungo tre direttrici: la prima intreccia la digitalizzazione; la seconda la redditività; la terza l’identità. Cominciamo. Molto di quello che un tempo si portava a riparare, dalle scarpe ai vestiti, da tempo non si ripara più e quindi il sarto o il calzolaio sono mestieri che si rivolgono ad una fascia alta, e non più a quel ceto medio (oggi nella crisi più profonda di reddito) che costituiva la principale platea di fruitori. Inoltre, la moda dei vestiti cosiddetti low cost realizzati dalle catene multinazionali ha conquistato le città al pari del mercato delle scarpe sneaker che richiedono ben poca manutenzione: insomma, si fa prima a buttare e a comprare roba nuova.
Questa tendenza alla sostituzione anziché alla riparazione ha pienamente coinvolto anche molti degli strumenti della nostra quotidianità, dagli elettrodomestici ad altro genere di oggetti su cui vale la regola della “obsolescenza programmata” che non è una espressione complottista ma una regola diffusa per cui le cose si fermano dopo un tot di ore di utilizzo; aggiustarle diventa o troppo oneroso o impossibile perché il mercato ha già pronto un apparecchio sempre più aggiornato da connettere: si chiama internet delle cose. Va da sé che tale tendenza oltre a essere l’opposto dell’ecosostenibilità, incide sulla mortalità di alcuni lavori artigiani.
Quelli che resistono faticano perché non si trova ricambio generazionale. E qui c’è molto da lavorare, anche in termini di comunicazione. Fintanto che terremo troppo accesi i riflettori sugli influencer, l’idea – assolutamente distorta – che si possa fare una montagna di soldi postando foto e video muovendo l’algoritmo non uscirà mai dalla testa dei più giovani. I social sono un ottimo veicolo di pubblicizzazione, nessuno lo mette in dubbio, ma prima viene il lavoro. Che si struttura in turni di lavoro: perché i giovani italiani non vogliono fare i parrucchieri o i barbieri? Perché a fare le unghie sono quasi tutte cinesi? Abbiamo fatto sparire la fatica e il sacrificio dalla cassetta degli attrezzi del successo: perché fare l’idraulico o il falegname o il carpentiere diventa disdicevole? La piccola impresa nasce dalla gavetta di questi mestieri; le intuizioni del “Made in Italy” nascono dalla padronanza di un lavoro fatto a lungo.
Arrivo così al terzo punto, quello identitario: nelle scuole professionali bisogna saper raccontare ai giovani la bellezza di alcune storie di successo. Ecco, il fascino della narrazione e della testimonianza sono un pezzo centrale anche nel percorso scolastico degli istituti professionali. Il liceo del Made in Italy se non emoziona non funziona. E di storie ne avremmo da raccontare tantissime, in ogni settore. Dal vetrinista Giorgio Armani a Egidio Brugola inventore dell’omonima vite.